Capitolo 8.

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Quando avevo sedici anni vidi un ragazzo dell'ultimo anno appoggiato all'armadietto. Parlava con quelli del club di scacchi, li avevo conosciuti tutti durante il primo anno, ma come spostare le pedine sulle caselle si era rivelato un affare troppo artificioso per me – ovviamente, Rachel fu scelta per rappresentare la nostra scuola e vinse. Tutte le volte. Ma questo era certo, così come il fatto che mi sarei inventata un cartellone nuovo da sventolare tra il pubblico per tutti i suoi tornei.

Fatto sta che questo tipetto coi capelli scuri, a cui piaceva tenere lo zaino tra le braccia invece che sulle spalle, catturò la mia attenzione. Non tanto da farmi cadere la mela che mi stavo divorando, famelica per una delle diete da ospedale che i nutrizionisti ritenevano necessarie, ma comunque ebbe un certo impatto su di me. L'impatto lo ebbi anche col capitano della squadra di football che, quando per la prima volta in sei anni ebbi l'audacia di non vestirmi di nero, ma di giallo, si prese in carico il coraggio di passare a darmi una spallata con al seguito i suoi scagnozzi e urlare: «Sembri un Simpson grasso!»

Questa fu la prima e penultima volta. Poteva essere l'ultima, ma commisi un errore che non mi perdonerò mai: gli credetti. Mi persi per qualche secondo a guardare la bambolina fatta in cera e perfezione che gli camminava accanto, arricciolandosi una ciocca di capelli neri al dito, mentre nascondeva un sorrisetto di scherno. Per quella prima volta la piccola Grace decise che poteva permettersi di chiudersi in bagno a piangere per un po'. Mi misi a sedere sul water chiuso, tirando su le gambe, e feci scattare la serratura. Lacrimai per tempi inaccettabili sulle mie ginocchia, aspettando che il senso di inadeguatezza di cui quelle parole mi avevano riempita fino all'orlo iniziasse a scemare. Ero piccola, fragile e un po' in sovrappeso. Che cosa potevo mai aspettarmi dopo aver sentito le risate di tutto il corridoio risuonarmi nelle orecchie e tramutarsi nel mio nome? Presi il cellulare con le mani tremanti e vidi un messaggio da parte di Rachel: mi aveva inviato una sua foto allo specchio nella camera del resort dove la sua famiglia aveva deciso di passare le vacanze di primavera. Una cosa così sarebbe stata quotidiana; lei mi mandava una foto tirata a lucido e io una del mio doppiomento e viceversa. Quel giorno, però, non le risposi fino a sera. Avrei voluto strapparmi le cosce a morsi tanto quanto avrei voluto lo spazio come tra le sue, anche a piedi uniti.

Erano quasi le cinque di pomeriggio, le attività extra scolastiche stavano per sbaraccare e io ero ancora chiusa in quel bagno. Mi ero quasi decisa a uscire, quando sentii la porta accanto alla mia chiudersi.

«Hai intenzione di stare rinchiusa qui anche stanotte?»

Non avevo idea di chi mi stesse parlando dall'altro lato della muro.

«No» risposi io, iniziando a raccogliere le mi cose. «Me ne vado adesso.»

Quello che sembrava un lui non rispose, semplicemente lo sentii sospirare. Non riuscii a muovermi.

«Quell'idiota di Stan» iniziò. «Lascialo perdere.»

Mi scappò una lacrima sul viso. Non so perché, ma la compassione che gli altri mi riservavano mi commuoveva sempre.

«A me piaceva la tua maglietta gialla. E non sembravi un Simpson.»

Lo sentii muoversi. Da sotto la schermatura in plastica dura che ci divideva passò un pacchetto di frutta secca: uvetta e mandorle sgusciate in carta blu e panna, me lo ricordo ancora.

Lo raccolsi e sussurrai un: «Grazie.» Nell'abbassarmi, vidi un paio di scarpe inusuali per uno studente del nostro piccolo liceo di provincia: un mocassino lucido e un brioso giallo da mal di testa, dieci volte più acceso del mio. Il tipo dell'armadietto. Trattenni il respiro.

«Lo sai che anche Bree Tanner viene spesso a piangere qui?»

«No, perché non so chi è Bree Tanner. L'ho già sentita.»

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora