Capitolo 29.

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Avevo quattordici anni quando ho avuto paura per la prima volta di perdere qualcuno. Avevo quattordici anni e nessuna voglia di piangere. I genitori di Rachel avevano trovato un posto di lavoro che avrebbe dato loro tutti i comfort che una piccola famiglia avrebbe mai potuto desiderare: un attico nell'Upper East Side, una babysitter aziendale per la bambina, il circolo di golf, le tazze di porcellana rifinite in oro, le perle nei portagioie, le migliori scuole. Sua madre, Stefanie, era stata assunta come giornalista per una delle testate più importanti d'America e suo padre doveva diventare amministratore delegato di un'azienda per cui si fa fatica a contare le sedi. Ricordo che Rachel ed io comprammo il cellulare a posta, terrorizzate all'idea di non vederci mai più, prontissime a intrattenere lunghissime conversazioni in qualsiasi luogo del mondo ci trovassimo, dall'autobus all'ospedale. E poi il destino ha detto no. Sua madre ha ottenuto un aumento lì dove era e suo padre non era pronto a lasciare Boston, la casa in cui era cresciuto e in cui, da poco, gli erano morti entrambi i genitori.

Mi ricordo tutto come fosse ieri. Quell'inconsapevolezza per cui non sai se una parte di te se ne andrà oppure no. Quel morso allo stomaco, il prurito ogni volta che pensi che la tua vita potrebbe essere stravolta.

Per Evan non credo sia la stessa cosa. Io ci sono da poco meno di un mese e di certo la mia presenza è stata sconvolgente, per tutti i fratelli Carter, ma la mia partenza non sarebbe un buco nella pancia, una mancanza tremenda da dover colmare. Eppure, quando mi dice che ha paura di cosa proverà quando me ne andrò, sembra dare voce a quei pensieri di una me quattordicenne e le persone che ballano, i tavoli, gli invitati spariscono. Rimane solo il suo viso squadrato, gli occhi grandi come pistilli di gerani dello stesso colore della caramello che tra l'altro ho sempre odiato.

«Un bacio non vuol dire sposarsi» provo a dire. Non sento neanche più la musica.

«Tu non hai capito, Grace.» Si sporge sul tavolo. «Se io ti bacio, poi come faccio a limitarmi a quello?»

Trattengo il respiro. «Non limitarti.»

Scuote il capo. «No? E cosa ottengo, poi?»

Non mi dà tempo di rispondere. Se ne sta andando, di nuovo, e io non ho intenzione di rincorrerlo. Mi sono stufata, ogni volta, di voler essere l'unica a discutere di questa situazione paradossale, a prendere dalle labbra dei Carter per delle risposte. Mi sono stufata delle conversazioni a senso unico. Di vedere Evan evitarmi se solo abbiamo mostrato un po' di interesse l'uno per l'altra. Pensa di passare la vita a trattenersi dal fare qualcosa di innocente? Bene. Ma non con me.

Eppure sono anche l'unica ad essere giunta a conclusioni affrettate, perché Evan non ha mosso un passo se non verso di me. Mi porge la mano.

«Sai ballare?» mi chiede.

«Se per ballare intendi oscillare senza pestarti i piedi, forse» scherzo.

Non ribatte. Io, allora, peso i miei pensieri. Non posso rimproverargli di non lasciarsi andare a un bacio tenuto tra le labbra per troppo tempo se io neanche riesco a ballare un lento con lui. Ho ventitré anni, non ha senso privarsi di tutto ciò che potrebbe farmi stare bene solo perché potrebbe anche farmi stare male. Intreccio le dita alle sue.

Vagamente sollevato, o così mi pare, ci mettiamo al centro della pista. Sento gli occhi di tutti bruciarmi addosso per qualche secondo, ma poi la sensazione svanisce com'è arrivata, perché a nessuno importa se Evan Carter e Grace Latches stanno cercando di trovare un punto di accordo.

Appoggio una mano sulla sua spalla, l'altra, al contrario, alta e nella sua. Evan, invece, nello schiarirsi la voce mi tira un po' più vicina con la destra, che ha posizionato poco sotto le mie scapole. Siamo così lontani che mi sembra di ballare da sola quando inizio a muovermi senza un senso ben preciso, solo sulle note di una canzone che mi sembra di aver già sentito.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora