Capitolo 3.

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In non so quanti chilometri di strada sterrata non ho trovato neanche una stazione degli autobus. A dire la verità, gli unici veicoli che ho incontrato sono state due motociclette a un paio di minuti di distanza l'una dall'altra. Mi trascino dietro una valigia pesante e con una ruota che ha deciso di suicidarsi alla decima buca che non sono riuscita a schivare.

Il navigatore del mio cellulare continua a dirmi di proseguire, che tra pochi minuti sarò arrivata a destinazione, l'indirizzo preciso che il rockettaro miserabilmente infognato in questa questione mi ha inviato per mail, con tanto di ringraziamento. E il primo bonifico, che non ho neanche visto da lontano, considerando che ci ho pagato un mese di affitto arretrato. Muoio dal caldo, sono sudata fradicia e ho i capelli completamente appicciati alla fronte. Devo avere un aspetto tanto orribile che non ho cuore di tirare fuori lo specchietto e darmi un'occhiata. Ma, in ogni caso, non è che i miei futuri datori di lavoro abbiano molta scelta, una fila di concorrenti freschi di laurea col curriculum alla mano per processarli in un colloquio lavorativo: o io o io, da quel che ho capito dalle informazioni criptiche di Rachel.

L'unica cosa che scorgo all'orizzonte è un complesso di poche casette spartane, in legno, ben tenute. Una distesa verde mi convince che, forse, la mia destinazione è proprio quella. Mentalmente, maledico Rachel per i dolori ai piedi e mi chiedo come sia possibile che da lì non passi neanche uno straccio di taxi. Continuo a infilare un passo dopo l'altro, il braccio in procinto di staccarsi dalla spalla reclama la mia attenzione e cinque secondi di riposo.

Mi sento molto un'attrice di un film scontato e banale dei primi anni duemila, in cui la protagonista viene ripresa dal regista dal basso verso l'alto, partendo dai tacchi vertiginosi, instabili sui sassi, proseguendo per le lunghe gambe slanciate, finendo su un busto fine, delicato e un viso trasudante splendore, su una strada di terra battuta, immune al freddo, al caldo e al tempo. Colei che inciampa leggermente sui suoi costosissimi plateau e si porta dietro, non si sa come, il velo di una lussuosa semplicità. Sono simile a questo prototipo di angelo solo nella parte in cui inciampo e sono su una strada dissestata. Per il resto, dovrei pesare circa venti chili meno e acquistare una quindicina di centimetri in più. E dovrei non sudare. Tantomeno essere vestita come una sfollata.

Sospiro pesantemente e non so se mi viene più da ridere o da fuggire a gambe levate; fosse solo per coprire il posto a Marcus, avrei optato sicuramente per la seconda opzione, ma visto che ho ben notato l'importo del bonifico mi son decisa a rimanere, considerando che non sono ancora stata assegnata a nessun ospedale. O meglio, non sono ancora stata assunta. O meglio ancora, sono disoccupata, come ha detto Rachel. Fatti coraggio, penso. E infatti inizio a camminare di nuovo. A circa duecento metri dalla meta mi accorgo di una testa che spunta da quello che sembra essere un granaio, una testa coperta da un copricapo bianco con due strisce di stoffa a chiuderlo e stringerlo. Aumento il passo, perché in questo momento una qualsiasi presenza umana a cui sventolare bandiera bianca potrebbe essere decisiva per la mia salute mentale. Lei mi sente – e ci credo, considerando che la valigia fa lo stesso rumore di un carro di cavalli al galoppo. Si volta lentamente e, dopo avermi squadrata per qualche secondo, si pulisce le mani ossute alla gonna grigia, lunga quasi fino ai piedi, accennando un sorrisetto che mi sembra di scherno e decido di ignorare.

«Buongiorno» grido, ancora un po' troppo lontana per parlare normalmente. Ho bisogno che non si volti per andarsene. Quando giungo vicina a lei, a dividerci ci sono una manciata di metri e una staccionata in legno.

«Buongiorno» mi risponde allora. «Suppongo che tu ti sia persa.»

«Non puoi immaginare quanto mi sia persa.» Fa un passo verso di me, così io faccio lo stesso e le mostro il cellulare con le mappe aperte. «Vedi, qui dice che la mia destinazione è a un minuto a piedi sulla mia sinistra, ma qui c'è solo questo villaggio.»

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora