Capitolo 3 ♡ Cora

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Durante la settimana, il cinema era praticamente vuoto. Gli unici avventori erano qualche bambino con la propria famiglia o gruppi di anziani che approfittavano delle repliche di vecchi classici per fare qualcosa di diverso della solita partita a carte nel parco.
Quel mese erano previsti solamente due film nelle nostre misere tre sale: "La vita è bella" e il nuovo film dei Minions. Non devo certo a starvi dire io che il pubblico era estremamente polarizzato.
Quel pomeriggio, però, non c'era praticamente nessuno. Erano le cinque, la prima visione era già partita da più di mezz'ora, e nell'aria aleggiava un silenzio completo, interrotto solamente dalla macchina dei popcorn che ogni tanto produceva un leggero schioppettio.
Ero da sola, il mio unico supervisore - e unico collega per la giornata - era fuori a fumare una sigaretta e avevo la sensazione che non sarebbe tornato molto presto, così tirai fuori il cellulare dalla tasca del grembiule. Ci obbligavano ad indossare un imbarazzantissimo grembiule a righe rosse e bianche, con tanto di capello, come di quelli che si vedevano nei film americani. La paga era fin troppo misera per sopportare quella divisa e le decine di donne iraconde che mi inveivano contro ogni giorno, per non parlare dello schifo che trovavamo sotto i sedili alla fine di ogni serata.
L'ultima schermata che avevo aperta sul mio telefono era la chat che condividevo con Flora, Elia e Nicolò. Sarebbero arrivati da un momento all'altro, subito dopo aver finito gli allenamenti di cheerleading e basketball ed essersi fatti una doccia veloce. Erano passati quindici minuti dal loro ultimo aggiornamento in cui dicevano di aver lasciato il parcheggio della scuola e ormai sarebbero dovuti essere a pochi passi dal cinema.
Sbuffai e decisi di andare su Tiktok per passarmi il tempo. Dopo tre video sui gatti e un nuovo trend che ormai stava spopolando in qualsiasi parte del mondo, decisi di chiuderlo. Continuavo a pensare alla borsa di studio e a come sarebbe stato impossibile vincerla contro tutte quelle altre persone che si erano iscritte.
«Visto, ve lo stavo dicendo che si stava deprimendo tutta per la storia del concorso.» La voce di Flora rimbombò per il grande salone d'ingresso completamente vuoto.
I miei tre amici avevano appena superato le porte di vetro e si stavano dirigendo verso di me. A vederli tutti insieme potevano veramente sembrare i protagonisti di una qualche serie tv: Flora ed Elia, entrambi alti, capelli ricci e color cioccolata; Nicolò con il suo ciuffo nero davanti agli occhi e la macchina fotografica appesa al collo. In mezzo a loro, bassa e in carne, mi sentivo un po' fuori luogo. Mi ero sempre sentita così, tuttavia non lo avevo mai detto a nessuno.
Penso che tutti conosciate la storia di quella balena destinata ad essere sola per il resto della sua vita: le balene comunicano attraverso le onde sonore, tutte sincronizzate su una frequenza specifica, ma qualcuno si era dimenticato di passare il messaggio anche a lei. La sua frequenza non è utilizzata da nessuno. Parla una lingua che nessun altro al mondo conosce. È sola e morirà da sola.
Ogni tanto mi sentivo come lei.
«Sembra stare bene» commentò di rimando Nicolò, guardandomi storto. «Solo scocciata di vedere tre ragazzini che non pagano mai il loro biglietto d'ingresso al cinema.»
Flora scosse la testa, allungandosi verso il bancone dietro al quale avevo preso posizione quel pomeriggio. Appoggiò le mani sul finto marmo colorato, aprendo i palmi, come se fosse pronta a fare a botte con me.
«Filtro. Cinque secondi» disse lei, scandendo le parole e guardandomi fisso negli occhi.
Era una cosa che il nostro gruppo si era inventata da piccoli. Quando volevamo sapere cosa passasse per la destra degli altri, ci sarebbe semplicemente bastato pronunciare quella parola e loro avrebbero saputo che eravamo pronti ad ascoltare qualsiasi cosa ci stesse facendo preoccupare, senza alcun giudizio.
«Sai benissimo che hai ragione tu. Come posso pensare ad altro che a quello?» risposi io, incrociando le braccia al petto. Flora faceva praticamente parte del mio cervello, ormai non aveva neppure più bisogno di usare quel giochino per conoscere i miei pensieri.
«Ti ho già detto che non dovresti essere così pessimista. Tu pensi troppo, diteglielo anche voi!» esclamò girandosi verso i due ragazzi che si erano allontanati, studiando uno degli espositori di caramelle, probabilmente chiedendosi quale gusto comprare.
Nicolò si limitò a stringere le spalle, Elia si grattò la testa. «Dirti di non preoccuparti non funzionerà, vero?» chiese, guardandomi come se fosse un delfino spiaggiato, senza alcuna idea di dove si trovasse o cosa avrebbe dovuto fare. Elia era così per la maggior parte del tempo. E la trovavo la cosa più carina del mondo.
Flora sbatté la testa contro il piano del bancone, con così tanta forza da provocare un sonoro tonfo. Ero abbastanza sicura che si fosse fatta male, ma quando si rialzò, la fronte leggermente arrossata, non lo diede per nulla a vedere. «Qualcuno mi deve spiegare perché l'intelligenza è stata distribuita solamente a me, alla nascita. Dove si trovava mio fratello?» domandò a qualche entità onnisciente, gli occhi diretti al soffitto e le mani alzate.
«Probabilmente in fila per i dolci» rispose il diretto interessato, sventolando un sacchetto trasparente ricolmo di caramelle e appoggiandolo davanti alla sorella.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Giuro che prima o poi lo ammazzo.»
Io ridacchiai, incredula di come quei due potessero battibeccare per le cose più banali. Loro due dicevano che tutti i fratelli si comportavano in quel modo, che era totalmente normale. Io ero figlia unica, quindi non avrei mai potuto capire la loro relazione fino in fondo, immaginavo. Avevo sempre considerato loro due, i miei fratelli. Ci conoscevamo dall'asilo ed era difficile immaginare la vita senza di loro, ma non per questo riuscivo ad essere così spigliata con Elia. Con Flora era più facile, con Elia era praticamente impossibile. Forse era perché aspettavo dalle elementari il momento giusto per dichiararmi.
Momento che sembrava non voler arrivare mai: prima lui era fidanzato con un bambino in terza elementare, poi era iniziata la sua transizione, a cui erano seguiti anni ed anni di dubbi da parte mia, per arrivare alla conclusione finale che, nonostante tutto, mi piaceva ancora. Non mi importava se maschio o se femmina, se indossava gonne o pantaloni, se stava cercando di farsi crescere la barba o i capelli. Mi piaceva lui.
E in quel momento, dopo che le acque si erano calmate da anni, non trovavo il coraggio di rovinare - potenzialmente - la nostra amicizia.
«Comunque, i film sono già iniziati da un po', ragazzi» dissi, pesando le caramelle di Elia e scontando il prezzo con il mio buono da dipendente. La cosa migliore di quel lavoro era il cibo gratuito.
«Non ti preoccupare, siamo qua per passare del tempo con te, non per andare a guardare i Minions» replicò Flora.
Mentre passavo il sacchetto a Elia, il flash della macchina fotografica di Nicolò scattò, inondando i nostri volti con una luce gialla e accecante.
«Scusate, avevo bisogno di catturare il momento» borbottò lui quando Flora iniziò ad urlargli dietro che quella luce avrebbe rovinato i nostri occhi, prima o poi.
«Potresti non usare il flash, sai. Riusciresti a catturare il momento in egual modo, senza mettere a rischio la nostra incolumità» stava dicendo Flora, un dito alzato in aria per riprenderlo. «E poi sono sicura che sembriamo dei pesci lessi con gli occhi rossi.»
«Tipo vampiri?» si intromise Elia, una caramella gommosa a forma di coccodrillo verde già in bocca.
«Tipo Edward Cullen in versione povera» annuii io, dandogli manforte.
Nicolò scosse la testa, divertito, facendo ondeggiare i capelli scuri. «I vampiri sono sexy. È tipo la regola numero uno. Non potete sembrare dei succhia-sangue, mi dispiace.»
Iniziammo tutti a ridacchiare, quando in quel momento rientrò dalla sua pausa il mio supervisore, Ivan. Squadrò il nostro gruppetto da cima a fondo, guardandoci pensieroso. Conosceva i miei amici tanto quanto conosceva me: quasi ogni giorno si presentavano al cinema, facendo più casino di qualsiasi altro cliente. Diceva di odiarli, ma ogni tanto mi lasciava uscire da lavoro prima del dovuto. Diceva di farlo solamente perché così se ne sarebbero andati, ma secondo me lo faceva perché voleva lasciarmi divertire.
«Andatevene» borbottò Ivan quando li vide. Poi mi indicò con un dito. «Anche tu. Tra poco il tuo turno finisce, ma non c'è bisogno che tu rimanga fino ad allora, puoi uscire prima.»
Onestamente, avrei potuto passare il resto del pomeriggio con i miei amici, ma appena fummo usciti dall'edificio, dissi di aver bisogno di tornare a casa per fare dei compiti che erano rimasti arretrati. Era una bugia, non rimanevo mai indietro con i compiti e loro lo sapevano. Ma avevo bisogno di vedere mia madre.
«Devi proprio andare? Siamo appena arrivati» si lamentò Flora, aggrappandosi al mio braccio, come se facendo così avesse potuto impedirmi di salire sull'autobus.
Scossi il braccio per staccarmela di dosso. «Sai che quando dico di dover andare non lo faccio per cattiveria. Mi piacerebbe davvero tanto passare il pomeriggio con voi, ma oggi proprio non posso.»
Flora non insistette oltre, forse perché non voleva farmi sentire obbligata a rimanere con loro, forse perché aveva capito cosa dovevo realmente fare a casa.
«Okay, ma chiamami se hai bisogno di qualcosa.»
«Come se potessi aiutarmi con matematica» la presi in giro io.
Dopo aver salutato tutti, salii sull'autobus, sedendomi nel primo posto libero che mi capitò sotto tiro. Non avevo mai capito la corsa che tutti i ragazzi sembravano fare verso l'ultimo sedile. Era un posto come un altro. Anzi, avresti dovuto percorrere mezzo veicolo solamente per raggiungere l'uscita.
Da fuori, casa mia sembrava un normale complesso di appartamenti, poco fuori il centro della città. Le palazzine di quattro o cinque piani si susseguivano, una stretta all'altra, in una catena che si ripeteva in continuazione. Balconi con panni stesi ad asciugare, piante in vaso che sembravano non venire annaffiate da anni, sedie e tavoli da giardini sbiaditi dal sole, qualche occasionale cuccia di animali. Quei palazzi sembravano in tutto e per tutto normali, e così lo sembravano anche le persone che vi abitavano all'interno.
«Sono a casa!» urlai, una volta dopo essermi chiusa la porta d'ingresso alle spalle e aver lasciato cadere le chiavi nel portaoggetti. Mi tolsi le scarpe, scalciandole in mezzo a tutte le altre paia ammucchiate sotto l'appendiabiti.
Stava arrivando l'orario di cena e tutti le luci erano spente, fuorché quella della cucina, da cui arrivava il rumore di fornelli accessi e pentole che sfrigolavano.
Sembrava essere una giornata buona.
Forse sarei potuta rimanere con i miei amici fini a tardi, mangiare qualcosa con loro al McDonald's e poi tornamene a casa solamente a notte inoltrata, ma non appena il pensiero mi sfiorò la mente lo scacciai con forza. Per una giornata buona non potevo adagiarmi sugli allori. Non sarebbe stato così per sempre. Dovevo tenerlo bene a mente.
«Sono in cucina! Fra poco sarà pronto da mangiare, cambiati e siediti a tavola» rispose di rimando la voce ovattata di mia madre dalla cucina. Sembrava contenta e impegnata, quindi non proferii altra parola e mi infilai in camera.
La cosa bella di essere figli unici, era poter avere una stanza tutta per sé, anche se il posto dove abitavi aveva poco più di quattro stanze: un corridoio, un bagno, una stretta cucina con il giusto spazio per ospitare un tavolo e due sedie, e due camere da letto. Anche se la mia sembrava più uno sgabuzzino. C'era spazio solamente per letto e armadio, ma non me ne importava molto. Perché quel poco spazio che c'era era solamente mio e di nessun altro al mondo.
C'era solamente una finestra, ai piedi del letto. I muri, pitturati di blu quando ero più piccola, erano tappezzati di foto marine che rendevano lo spazio ancora più accogliente. Flora lo descriveva come "angusto" ma secondo me non era quella la parola giusta da usare. Sembrava sicuro.
Quando mi fui cambiata, come promesso, la cena era già pronta nel mio piatto e mia madre stava già mangiando la sua porzione di pollo e insalata. Lenticchia si era seduto ai suoi piedi, aspettando con ansia che cadesse qualche pezzetto di cibo per terra.
«Cosa hai fatto oggi a scuola?» iniziò a domandare lei. Certe volte mi chiedevo se tutte le mamme del mondo avessero un copione prestabilito che dovessero seguire a mena dito. Ma quando me lo chiedevo ero felice, perché significava che si stava comportando a dovere, come avrebbe dovuto fare sempre.
Le sorrisi, cercando di sembrare contenta per non rompere quella bolla di felicità che si era costruita attorno. «Le lezioni sono state come al solito, ma nella pausa pranzo mi sono iscritta per la borsa di studio dell'Università.»
Per qualche motivo, sembrò turbata dalla mia risposta. Socchiuse gli occhi, pensierosa. Io strinsi la presa attorno alla mia forchetta, rimasta bloccata a metà aria, con ancora un pezzo di pollo e una foglia di insalata infilzate nei rebbi.
«Non mi avevi mai parlato di questa borsa di studio. Vuoi andare all'università? Pensavo volessi continuare a lavorare al cinema» si accigliò lei, continuando però a mangiare.
Era una bugia. Gliene avevo parlato più volte. Sapeva quanto ci tenessi. Doveva saperlo.
«Pensavo di avertelo accennato un paio di volte, forse non mi sono spiegata bene» risposi, gli occhi puntati sulle mie posate, come se il petto di pollo alla piastra avesse potuto darmi una qualche visione magica sul futuro. «Comunque non è detto che io riesca ad ottenerla. È un concorso a cui partecipano molti studenti della scuola e la borsa in palio è solamente una. Le possibilità sono davvero minime.»
«Perché iscriversi, allora? Se sai già che non la potrai avere mi sembra solamente una perdita di tempo. Dovresti concentrarti sullo studio e sul lavoro. Magari riusciresti ad avere una promozione, forse anche un aumento di stipendio, se ti comporti a dovere.»
Strinsi i denti, perché risponderle non sarebbe servito a nulla. Sin da piccola mi aveva sempre ripetuto che se una cosa non è sicura, allora era meglio lasciar perdere. Sprecare tempo in qualcosa che sapevo già non sarebbe mai accaduto era un gioco che non valeva la candela.
«Non è così... Gareggiare per la borsa di studio non mi ruberà alcun tempo, è come una lotteria. Potrò concentrarmi anche sul lavoro e sullo studio, senza rimanere indietro rispetto ai miei compagni» tentai di rispondere, ma i suoi occhi erano velati, non mi stava già più ascoltando.
«Solo non capisco perché tu debba proprio andare all'università... Non ho già fatto abbastanza per te? È arrivato il momento che tu inizi a ripagare tutto ciò che ti è stato dato» sentenziò lei.
Qualche volta, sembrava non ricordarsi che era papà a pagarmi le spese scolastiche e mandarci una cospicua somma ogni mese, per fare la spesa. E che i soldi per bollette e affitto arrivavano anche dal mio misero stipendio. Qualche volta, pensava che non facessi nulla per lei, che vivessi sotto il suo tetto come una sanguisuga, pronta a mangiare dal suo piatto per poi sputarci dentro subito dopo.
«Mamma, io non sto dicendo questo» replicai, la voce insicura. «Sto solo cogliendo un'opportunità.»
«Allora perché non prendere qualche turno extra al cinema? Quella sarebbe stata un'opportunità per aumentare le entrate, non ci avevi pensato? Abbiamo bisogno di soldi, non di un pezzo di carta che dica quanto sei stata brava a imparare un libro a memoria o quanto tu sia stata brava a fare la cocchina del professore!» esclamò lei, battendo le mani contro il tavolo.
D'istinto, la mia testa si abbassò, il mio corpo si strinse su se stesso, le mani si allungarono verso la faccia.
Quando capii che non mi avrebbe colpito, mi alzai, gli occhi ricolmi di lacrime che stavano per uscire.
«Vado in camera mia» riuscii a tirare fuori, prima di correre nella mia stanza, sbattendo la porta chiusa dietro di me, Lenticchia che mi sgusciava fra le gambe per nascondersi con me.

Like Rain ♡ {GIRLxGIRL}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora