Capitolo 10 ♡ Dana

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Mi sedetti al tavolo della mensa che, da più di un mese a quella parte, era diventato il mio posto fisso. Dalla mia postazione avevo una chiara vista di tutta la stanza, era uno dei principali motivi per cui lo avevo reclamato a settembre.
Fu per questo che ebbi una visuale molto chiara di quello che stava succedendo al tavolo di Carlotta. Lei e i suoi amici erano troppo lontani perché io potessi sentire le loro conversazioni, ma il fatto che Rachele le si fosse avvicinata non era un buon segno. Potevo immaginare cosa le stesse dicendo, tutta sorridente.
Uno dei due ragazzi sembrò risponderle male, così lei si alzò. Non avevo ancora finito di pranzare e lasciare lì due fette di pizza nemmeno toccate mi dava noia, ma dovevo parlarle.
Stava tornando in classe, vedevo la sua coda bionda danzare in mezzo alle teste degli altri studenti ignari di star camminando di fianco al diavolo travestito da bellissimo angelo.
«Che cosa hai intenzione di fare?» le chiesi, una volta che si infilò nel bagno delle ragazze, lontano da orecchie indiscrete.
«Mi sembrava di sentire una presenza dietro di me, ti sei messa a seguirmi?» domandò lei a sua volta. Si girò verso di me, gli occhi color ghiaccio taglienti come una lama. Teneva le braccia incrociate al petto, aspettando che le spiegassi il motivo di quel pedinamento.
«Sembra che tu non sappia rimanere lontana da me, quindi sì, ti sto seguendo.»
Rachele proruppe in una risata amara, la bocca sottile deformata in una smorfia. «Io non riuscirei a stare lontana da te? Dovrei ricordarti cos'è successo un po' di mesi fa?»
Strinsi le mani a pugno lungo i fianchi, le unghie quasi ad infilzarmi la carne dei palmi. Le piaceva sentirsi la vittima, quando nemmeno la era. Ero io la sua vittima, in più di un senso.
«Senti, non sono venuta per litigare di nuovo. Voglio solamente che tu te ne stia lontana da Carlotta. Ti ho vista prima. Lei non ti ha fatto niente, non si merita le tue angherie» la supplicai. Non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi.
Si avvicinò di qualche passo a me, lentamente. «Non sarei così sicura che non mi ha fatto nulla, se fossi in te. Anche il solo starti vicino, la prendo come un'offesa personale, dovresti saperlo bene.»
«Carlotta si è avvicinata a me per motivi di causa superiore, non vuole certo essere mia amica.» Stava solo cercando di vincere una borsa di studio, era finita con me per puro caso.
«Ma sembra molto amichevole con te.»
«Immagino che sia il suo carattere. Senti, lasciala in pace e basta.»
Mi prese il mento fra le dita, facendomi alzare lo sguardo. Il tocco delle sue mani sul mio volto mi fece uno strano effetto. Come una scarica di elettricità si fece strada per la mia schiena, rizzando ogni pelo del mio corpo.
Non me ne sarei dovuta stupire. Rachele mi aveva sempre fatto quell'effetto. E lei lo sapeva bene.
«Stiamo diventando un po' troppo impertinenti, con queste richieste. Dovrei rivelare alla gente qualcosa di più sul tuo conto? Forse dovremmo far sapere a tutti che tipo di persona sei davvero» domandò più a se stessa che a me.
Presi con forza il suo polso, facendole abbassare la mano. «I tuoi giochetti puoi tenerli per un'altra volta. Puoi dire quello che vuoi su di me, ormai non me ne importa più nulla. Lasciala in pace e basta.»
Una ragazza entrò nei bagni, così le lasciai andare il braccio, facendo finta di nulla. Uscii, con solamente più preoccupazioni di prima.

La prima cosa che dovresti fare dopo aver litigato con la tua migliore amica, è bloccarla su tutti i profili con cui potrebbe provare a contattarti. Io non avevo bloccato Rachele da nessuna parte e nemmeno lei aveva bloccato me. Forse non eravamo migliori amiche. Forse, per lei, ero solamente un'altra ragazza da prendere in giro, e non potevo certo dire che non ci fosse riuscita.
Ogni tanto, mi arrivavano delle notifiche da Instagram, ricordandomi che aveva postato delle nuove foto o che era tornata attiva sulle stories. La maggior parte delle volte, le ignoravo, cancellandole senza nemmeno pensarci sopra più di qualche secondo.
Da quando l'avevo vista avvicinare Carlotta, tuttavia, mi ritrovavo a controllare ogni suo post, sperando che non avesse deciso di spargere qualche voce sul suo conto. Non sapevo nemmeno perché fossi così preoccupata per quella ragazza che a malapena conoscevo, ma avevo visto la sua faccia scura quando avevo riportato alla luce il suo orientamento sessuale e non volevo che rimanesse ferita a causa mia. Perché Rachele l'aveva presa di mira solo per quello, perché mi si era avvicinata.
Probabilmente non avrebbe fatto nulla, voleva solamente creare un po' di zizzania, come al solito. Ma le mie dita tremavano sempre quando aprivano il suo profilo.
Da una settimana a quella parte, stava solamente postando volantini per la festa che avrebbe tenuto a casa sua per Halloween. Era praticamente una tradizione ritrovarsi a casa sua per festeggiare, iniziata dal fratello quattro anni fa e continuata da lei. Tutta la scuola si sarebbe presentata al suo portone anche se non l'avesse pubblicizzato su Instagram.
Per la prima volta dall'inizio del liceo non ci sarei andata. E so che suonerò piagnucolosa, ma era una delle tante cose che mi ricordava quanto la mia vita fosse cambiata e di come non sarebbe mai potuta essere come prima.
Non avrei mai più indossato stupidi vestiti di Halloween, rigorosamente abbinati a quelli di Rachele. Non avrei più festeggiato insieme ai miei amici, insieme a Christian. Non solo il weekend di Halloween, ma tutti i weekend della mia vita.
Mi ritrovai, come uno zombie, a riguardare vecchie foto che avevo in galleria. Foto dove sorridevo alla telecamera, con i capelli al vento e la pelle baciata dal sole.
Qualcuno bussò alla mia porta, proprio quando le prime lacrime stavano facendo breccia nei miei occhi.
«Dana? Posso entrare?»
Era Lani, la testa già infilata dentro la stanza a sbirciare cosa stessi facendo.
Mi sedetti sul bordo del letto, ricacciando indietro la mia tristezza. «Certo che puoi» le sorrisi.
Non l'avevo portata con me dalla psicologa, non le avevo ancora raccontato la verità, ma nelle ultime settimane stavo cercando di ricostruire a dovere il nostro rapporto e lei ne sembrava davvero entusiasta.
Sgusciò attraverso il piccolo spiraglio aperto della porta, richiudendosela alle spalle con cura e poi saltellò verso di me, sedendosi al mio fianco.
Indossava ancora la sua uniforme di scuola, probabilmente era appena rientrata a casa. Qualcuno sembrava essersi divertito a giocare alla parrucchiera con i suoi capelli perché si era ritrovata con due codini, uno più alto e l'altro molto floscio, con un paio di trecce sul retro, create usando i capelli che erano sfuggiti agli elastici delle code.
Non riuscii a trattenere una risatina alla sua vista. «Hai visto come ti hanno conciato i capelli?»
Lani si toccò il retro della testa, come se si fosse appena ricordata di quello che era successo ai suoi spaghetti neri. «Gaia dice che sono bellissimi. Me li ha fatti lei durante l'ora di ginnastica» mi raccontò.
Avevamo scoperto molto tardi, solamente dopo che ebbe iniziato il secondo anno di scuola elementare, che Lani si trovasse sullo spettro dell'autismo. I dottori ci dissero che eravamo stati fortunati, in casi simili al suo, le diagnosi arrivavano molto più tardi. A casa, da sola, scoprii che l'autismo nelle femmine spesso non viene identificato perché tutti gli studi si sono sempre basati su maschi bianchi. A quanto pareva, nessuno nella nostra città aveva mai conosciuta una ragazzina filippina e autistica. Col tempo, imparai a non stupirmi più di queste cose, ma all'epoca ne rimasi abbastanza scottata.
Contro ogni mia aspettativa, era stata mamma quella a prenderla meglio di tutti. Si faceva sempre in quattro per assicurarsi che Lani non si trovasse in situazioni che la mettessero a disagio, era perfino diventata rappresentante dei genitori nella sua classe, per tenere tutto sotto controllo.
Papà, d'altro canto, ancora non riusciva ben a capire cosa significassero tutte le scatole di puzzle e cubi di rubick che occupavano la camera di Lani o perché non potesse sedersi sulla sedia che Lani aveva dichiarato essere di sua proprietà o perché Lani non si fosse mai messa il maglione di lana che le aveva comprato per Natale.
Per me non era mai cambiato nulla. Uscita dal dottore, con la sua diagnosi in mano, non era per nulla diversa dalla Lani che era entrata pochi minuti prima. Era sempre mia sorella. La mia sorellina con i suoi occhi scuri e uno spazio vuoto in mezzo ai denti davanti.
«Ti ho fatto qualcosa!» esclamò ad un certo punto.
Non veniva mai in camera mia solamente per fare due chiacchiere, aveva sempre qualcosa da mostrarmi o da farmi provare. Glielo aveva insegnato mamma, le diceva che le persone non avrebbero capito i suoi sentimenti per loro se non avessero passato del tempo insieme. Lei credeva che insegnarmi a risolvere puzzle complicatissimi fosse il modo migliore per mostrarmi il suo affetto. E in un certo modo, lo era. Quando veniva a bussare sapevo sempre che mi stava pensando sul serio, prima di entrare, non lo faceva mai per capriccio o senza un motivo. Quando veniva da me sapevo sempre che mi voleva bene. E io ne volevo a lei.
«Un regalo per me?» le chiesi, cercando di sorridere. Lani non si accorse nemmeno del mio tentativo di stringere le guance e ricacciare indietro le lacrime. Ci avevano detto che per lei era molto complicato decifrare le emozioni altrui ed era qualcosa su cui stavamo ancora lavorando.
Annuì, tirando fuori qualcosa dalla tasca della giacca. «A scuola ci hanno fatto fare una maschera per Halloween. Pensavo che la potresti usare alla festa di Rachele. È settimana prossima e non hai ancora deciso un costume.»
Tirò fuori un pezzo di cartone nero, leggermente spiegazzato. Immaginavo lo avesse tenuto dentro la tasca per tutto il pomeriggio. Quando me lo passò, notai che era una maschera, tagliata a forma di pipistrello, con due fessure per gli occhi e un pezzo di elastico a collegarne le due estremità.
La presi, indossandola subito. L'elastico era un po' stretto intorno alla mia faccia e mi gonfiava i capelli attorno alla fronte. «Come ti sembra? Sono pronta per la festa?»
Non potevo certo dirle che non ci sarei andata. Non sapeva del mio litigio con Rachele, non sapeva nemmeno di tutta la storia con Christian. E mai lo avrebbe scoperto, non da me o mia madre, quanto meno.
Lei sembrava abbastanza soddisfatta e non mi dovetti nemmeno sforzare per mostrarle un grande sorriso.
«Molto fashion.»
«Molto fashion? E questa da dove salta fuori? Immagino che sia sempre opera di Gaia» la presi in giro io, togliendomi la maschera. Mi dispiaceva, ma a tenerla ancora qualche secondo avrei potuto rischiare un collasso. La testa mi stava già pulsando.
«È una parola che usano tutti i bambini. Gaia dice che se non la uso non posso essere sua amica e io voglio essere sua amica» mi spiegò lei, accigliandosi leggermente. «Ci sono delle parole che devo dire per essere anche tua amica?»
«No, per essere mia amica puoi dire tutte le parole che vuoi» replicai, la punta delle dita che mi formicolava dalla voglia di allungarmi a toccarle una guancia. Ma odiava il contatto fisico e non l'avrei sottoposta a quella tortura.
«No, per essere mia amica puoi dire tutte le parole che vuoi» ripeté lei, imitando il mio tono di voce. «Scusa,» aggiunse poi, «non sono riuscita a fermarmi.»
«Non preoccuparti, Lani. Va bene così» la rassicurai.
«Gli altri bambini a scuola dicono che non è divertente quando lo faccio. Mi sto esercitando a farlo soltanto a bassa voce, così che non possono sentirmi» disse, guardandosi le scarpe.
Non era la prima volta che i bambini della sua classe le davano problemi, ma non lo facevano con malizia. Erano solo bambini e pensavano che Lani facesse tutto per gioco. Non capivano fino in fondo cosa significasse per lei, come non potesse trattenersi da fare alcune cose.
«Dovremmo dirlo a mamma» la incoraggiai io. «O ai maestri.»
Lei scosse la testa, con forza. «No, posso farlo da sola. Mamma si arrabbierà troppo e i maestri non dicono niente.»
La guardai mentre si alzava e usciva dalla stanza, senza più rivolgermi la parola. Avrei dovuto parlare io con mia madre.

Like Rain ♡ {GIRLxGIRL}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora