Trentesimo capitolo.

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Non so quanto tempo rimanemmo lì, fermi immobili, abbracciati, con gli occhi umidi e il cuore a pezzi. Affondai la testa nell'incavo del collo dell'amore della mia vita. Probabilmente con i miei capelli gli solleticavo la gola, ma lui non disse niente. Mi tenne solo stretta forte a se.
«Dov'é..il posto?» sussurrai al suo orecchio. Mi strinse di più.
«Londra» rispose secco.
Londra. La città da dove venivo io.
Potevamo risolvere la situazione. Si poteva.
«Londra. Ashton, ti rendi conto? C'é mio padre, i miei nonni, gli zii..posso venir con te..» urlai entusiasta staccandomi da lui. Fece un verso strozzato, come se il mio allontanamento gli avesse causato un dolore interno. Non reagì. Restò fermo e in silenzio.
«Non puoi. Non puoi abbandonare tutto, per me» biascicò lentamente.
«Invece si. E voglio farlo, Ashton» risposi. Perché reagiva così? Io avrei fatto tutto, per lui.
«No, non puoi farlo Dianne. Se poi dovesse succedere qualcosa, o peggio, ci lasciassimo, non mi perdonerei mai il fatto che hai viaggiato fin all'altra parte del moneo, per me» mi rispose secco, poggiato al muro bianco sporco del bagno.
Fu un colpo al cuore. Quelle parole, mi distrussero.
«Cosa diavolo stai dicendo?» mormorai lentamente.
«Come ti ho detto, farei di tutto per te. E..lasciarci? Avevamo detto che ci volevamo a vicenda, io..» iniziai a balbettare, esasperata dalla situazione.
«Dianne, cambieranno tante cose, troppe. E chi dice che arrivati là, tu non perderai la testa per un bel londinese?»
Non ci vidi proprio più. Perché pensava determinate cose? Perché pensava che io fossi capace di ciò?
«Io? Io voglio te, Ashton. Voglio un australiano biondo che mi fa sempre sorridere. Forse sei tu, che non vorresti più me. Forse non mi vuoi più. Forse ti sei stancato, e okay, lo capisco. Tutti si stancano di me, ma non usare questa stupida scusa. Io voglio te, te e nessun altro.» Detto ciò, scappai via. Non ascoltai nient'altro. Nemmeno i commenti maliziosi dei ragazzi quando uscii da quel bagno. Non vidi niente, non volevo veder niente. Ero stanca, volevo lasciare tutto. Avevo paura. Mi allontanai dal locale, camminai con il cuore in gola per le strade di una Sidney notturna. Piansi, piansi tanto.
Non volevo tornare a casa. Sicuramente Marti si sarebbe informata su ciò che era accaduto e al mio ritorno mi avrebbe chiesto di tutto. E io non ne avevo voglia. Volevo solo piangere in silenzio, cercando nell'aria ciò che avevo perso. Magari, avrei trovato Peter Pan, che mi avrebbe portata sull'isola che non c'é, nonostante fossi già cresciuta. Magari mi avrebbe trovato Hagrid con la mia lettera di ammissione ad Hogwarts, nonostante non avessi più 11 anni.
L'unica persona che non volevo trovare, era lui. La stessa persona che mi aveva ridotto in quel modo, che mi aveva lacerato dentro.
Lui non mi voleva più, altrimenti sarebbe stato entusiasto di sapere che l'avrei rincorso fino a Londra, forse. Avevo un casino in testa.
«Hai un accendino?» mi sentii domandare. Sobbalzai e mi girai di scatto, ritrovandomi faccia a faccia con una ragazza di forse circa 19 anni, con i capelli verde smeraldo e un bel piercing al labbro. Una sigaretta fra le mani, spenta.
«No, scusa..» le risposi.
Lei non disse altro e si accomodò su una panchina a pochi passi da me. Qualche secondo dopo, l'imitai. Non faceva ne caldo, ne freddo e stare lì, ferme immobili, non era male, infondo.
«Delusione amorosa?» mi domandò ad un certo punto, guardando davanti a se.
«Come l'hai capito?»
«Dal tuo sguardo, perso nel vuoto, spento. Come se più nulla ti potesse rendere felice e calma. Come se il resto del mondo facesse schifo. Ti dico, i modi per distrarsi, ci sono sempre» mi rispose, sempre non guardandomi.
«Tipo?»
«Tipo le feste con gli amici, le discoteche, il bere, il fumare, il ridere. »
Era misteriosa, lei. Strana, ma era piacevole da ascoltare. Sicuramente era stata delusa pesantemente, per dire così. Più si soffre, più ci si vuole distrarre.
«Anche parlare, distrae e almeno non fa male..» mormorai.
«Se non dovessimo fare ciò che fa male, non ci si dovrebbe nemmeno innamorare. L'amore fa male» disse, con fermezza, in modo tagliente. Chissà cosa le era successo. Gliel'avrei voluto chiedere, ma nemmeno sapevo come si chiamasse, non avevo il diritto di chiederlo.
«Come ti chiami?» «Roxanna.»
Restammo in silenzio, a contemplare la strada notturna, sporca, dove di tanto in tanto passavano gruppi di ragazzi, ubriachi, divertiti. Poi c'eravamo noi. Due ragazze silenziose, sobrie, doloranti.
«Tu come ti chiami?» «Dianne.»
Restare troppo in silenzio, faceva riaffiorire troppo i problemi. Perché quando parli, fai qualcosa, ti distrai e per qualche secondo, minuto, lasci perdere il dolore, che in caso di silenzio, riaffora. Forse è pur per questo che hanno inventato la musica. La musica, per riempire i vuoti, i silenzi, che ci fan soffrire.
«Come si chiama, lui?»
«Ashton. A te?»
«Irina. È una ragazza, era la mia migliore amica. E me ne sono innamorata. Non volevo dirglielo, lei l'ha scoperto e è finita come è finita» raccontò, stringendo forte i pugni e guardando la luce di un alto lampione che si stagliava a poco da noi. Non sapevo che dire, semplicemente decisi di poggiarle un braccio attorno alle spalle. A volte parlare o agire con uno sconosciuto è meglio di farlo con qualcuno che si conosce. Non hai paura della reazione, sei sincera.
«Io la amo, tantissimo. Così tanto che mi sarebbe bastato averla vicino come amica, non come fidanzata» biascicò, con voce rotta. Stava per piangere.
«Capirà, ne sono sicura. È la tua migliore amica, saprà tanto di te, cose buone e cose non buone. Saprà i tuoi punti deboli, i tuoi punti forti. Saprà quanto sei speciale. E tornerà da te. Parlerete e vedrai che succede. Ma non ti lascerà così, ne sono sicura» le dissi, lentamente.
Forse anche io dovevo dare del tempo ad Ashton. Forse era solo stanco, triste per la decisione e aveva reagito in modo affrettato. Chissà, forse avevo sbagliato pensiero.
«Grazie» mormorai a Roxanna.
«Di cosa?» «Forse mi hai fatto capire qualcosa di cui avevo bisogno. Grazie. »
Mi alzai da quella panchina gelida, sistemai i vestiti e dando un piccolo biglietto alla ragazza, le raccomandai : «Fammi sapere che succede. C'é il mio numero su quel biglietto, io vado».
Inizialmente non rispose, ma quando mi ritrovai a fine strada, pronta a girarmi, mi sentii urlare: «Grazie!»

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