Le buste sono pesanti, e nella frenesia di appoggiarle sul divano, mi lascio scappare una parolaccia che nessuno si aspetterebbe da una ragazzina di sedici anni.
Papà sta guardando Milan-Inter alla tv. Sicura di ricevere una ramanzina, provo a correggermi pensando a come sostituire la parola merda: tarda, perda, disperda.
Non penso a nient'altro per i successivi trenta secondi e solo sentendo il boato del telecronista per un mancato goal del Milan, mi ricordo che quando papà guarda lo sport, tutto il resto sparisce.
In effetti è troppo attento e concentrato sulla tv per accorgersi davvero della presenza di qualcun altro.
Ma quando mi muovo verso la cucina per conservare le uova in frigo, si volta distrattamente esclamando un saluto.
«Ciao»
«Ciao» Ritorno in soggiorno e do un'occhiata alla TV. L'uno a zero per l'Inter a fine primo tempo non promette nulla di buono, ma lui è uno di quelli che ci crede fino alla fine nella vittoria.
«Come va?» butto lì, sospirando per lo sforzo di aver tenuto il peso delle buste.
Mamma si raccomanda sempre di non sforzarmi; sono io a voler fare di testa mia. Mi dispiace lasciarle portare pesi. Quando rientriamo dal supermercato cerco sempre di afferrare le buste prima che lei scenda dalla macchina e poi corro in casa per non darle il tempo di opporsi.
«Stiamo perdendo. Però adesso c'è il secondo tempo e recuperiamo.»
Mi piace il suo ottimismo.
«Luana, mi togli sempre le buste dalle mani!» esclama mamma, entrando in casa. Si sbatte la porta alle spalle e appende la giacca all'appendiabiti. «Alla fine hai dovuto portarle tu, di nuovo!»
Si avvicina al divano.
«Scusa. Era per non farti stancare» dico.
Sbircia nelle buste. «Brava, almeno hai messo le uova in frigo»
«Ti ho preceduta»
Mi guarda mettendosi le mani intorno ai fianchi. «Comunque io sono la madre! Voglio e devo stancarmi»
Andrea appare in soggiorno e punta dritto verso le buste della spesa mentre lei prende in mano quella più grande e la porta in cucina. Quando si accorge dei suoi piedi scalzi, spalanca gli occhi sconcertata. «Andrea, vatti a mettere subito le ciabatte!» lo ammonisce incredula. «Non camminare scalzo»
«Ma mamma!» brontola lui sbuffando.
«Niente ma mamma, ti prendi un malanno. Forza vai»
Comincia a riordinare la spesa negli scaffali e Andrea sparisce in corridoio.
«OK!»
Continuano a battibeccare anche a distanza.
«E lavati le mani, dopo averle messe»
«Le hai comprate le Kinder delice?»
Papà fa un saltello sul divano. «Sìììììììììì» urla.
Trasalisco e lo fisso sbigottita. «Diooooo, che succede papà?»
Alza le braccia, stringendo i pugni verso l'alto, mentre il suo viso diventa rosso fuoco. «Goallll Goallll, te lo avevo detto eh eh» Sbatte una mano sul divano per dirmi di mettermi seduta. «Vieni, vieni a vedere questa azione. Non puoi perdertela, sai?»
Vengo presa in contropiede da questa richiesta inconsueta, ma il suo buon umore è talmente travolgente che non riesco a rifiutare e, anche se con un po' d'imbarazzo, mi siedo accanto a lui.
In T.V. scorre il replay di Ibraimović che fa goal in rovesciata da centro campo.
«Ma come diavolo ha fatto???» farfuglio.
«Ma non lo so» Papà se la ride, alternando lo sguardo da me alla tv. «Ibrahimović ha i riflessi pronti. Davvero, peccato che non eravamo lì»
Il tono della voce gli si affloscia durante l'ultima frase.
«Qualche volta potremmo andare allo stadio» propongo timidamente. «E provare l'emozione di vedere giocare dal vivo la nostra squadra del cuore»
«Ci andiamo quando gioca contro il Bologna?»
Mi stringo nelle spalle. Non so se lo faremo davvero, ma mi piace credere di sì. «Certo, perché no?!»
«E ma vedi che se compro i biglietti, signorina, poi ci devi venire davvero con me, non puoi rifiutarti»
Mi punta un dito contro e io fingo un'espressione offesa.
«Per chi mi hai preso? Certo che vengo!»
«Per la figlia di uno che mantiene sempre le promesse e quindi, di conseguenza, avendo gli stessi geni del padre, non può che mantenerle anche lei»
«Ottima risposta» ammicco.
«Che poi, mi domando come ti sarà venuta tutta questa passione per lo sport, a te»
Non è ovvio? mi domando.
Ma poi mi rispondo che forse è ovvio solo a me stessa, perché mica io lo dico agli altri quello che c'ho in testa!
Nascondo sempre tutto, pretendendo quasi che chi ho di fronte me lo legga negli occhi il malessere che provo e i pensieri che mi intasano il cervello.
«Beh, crescendo con un padre sfegatato di sport, cosa pretendevi?»
Mi guarda con occhi dolci ed è la prima volta, dopo il litigio nella mia cameretta, che lo fa. In questo mese non mi ha rivolto la parola, se non in modo controllato e anaffettivo. Capisco la sua delusione e non gliene faccio una colpa.
Appoggio la schiena contro lo schienale del divano e fischietto, sorridendo.
Voglio fare finta che questo momento di dolcezza sia la quotidianità -la nostra, quella di un padre e una figlia che si dimostrano amore mentre guardano una partita di pallone- e non un avvenimento così raro da farmi sentire strana e da farmi battere il cuore a mille.
Vorrei che il suo sguardo fosse sempre così dolce. Ma non è mai stato facile. Troppi silenzi, troppi giorni senza parole. Eppure, in questi momenti, sembra tutto quasi normale. Ma so che non lo è. Non per noi. Non dopo avergli mentito sulle mie lezioni di piscina.
«Da ragazzo ci andavo spesso allo stadio, con i miei amici» mi confida poco dopo.
«Davvero?»
«Certo, facevo pure il portiere»
«Ma daiii, che anno era, il mille avanti cristo?» scherzo.
«Ti sembro così vecchio, signorina?» Ride e sospira. «Erano gli anni duemila, delle olimpiadi a Sidney, dell'estate a Napoli quando io e mamma ci siamo conosciuti, delle granite al limone sui lidi con Albachiara di Vasco in sottofondo»
Papà si interrompe, lo sguardo perso verso lo schermo ma ormai lontano dalla partita. La vedo, quell'ombra che gli attraversa il volto. C'è un silenzio improvviso, pesante. Poi, come risvegliato da un ricordo lontano, la sua espressione cambia di colpo, diventando sognante. Ha nelle pupille quel luccichio sorprendente tipico dei ricordi belli che riescono a farti rivivere in modo vivido l'amore passato.
Mi appallottolo sul divano e mi metto ad ascoltare le sue parole con avidità come se mi stesse raccontando una di quelle fiabe delle principesse che mi leggeva da bambina per farmi addormentare.
«Era l'estate di Galeazzi. La sua voce sovrastava le urla, le risate, tutto. Insieme a Rossi e Bonomi stava vincendo anche lui, con la sua telecronaca da pelle d'oca, la voce che gli si spezzava mentre cercava di urlare "e vince l'Italia". E noi lì a esultare come matti. La stessa spiaggia di sempre, con gli ombrelloni gialli, piantati lungo la costa che sembrava infinita, in mezzo a sabbia e sassi che si alternavano per miglia e miglia fino al pontile sgangherato e traballante, fermo lì da una vita insieme ai vecchi, alle bestemmie sulla politica, alle canne da pesca conficcate nel mare e ai ragazzini che improvvisavano tuffi al calare del sole urlando: arriva la bombaaaaa.»
Mi appisolo così, con il suono della sua voce in sottofondo.
STAI LEGGENDO
Quando il vento mi accarezzò la pelle
General Fiction© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...