La professoressa Santaltello fissa un cartoncino bianco rappezzato di scotch.
Nell'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie le ho voluto regalare la visione fugace del mio dolore e della mia paura. E anche della mia rabbia...
Io le sto seduta di fronte.
Se le rese dei conti fra le persone fossero tutte dolci come la nostra, il mondo sarebbe senza dubbio un posto migliore.
«Perché l'hai strappato?» mi domanda.
«Perché ero arrabbiata» le rispondo. «È fortunata. Qua dentro c'è tutto: rabbia, dolore, paura, frustrazione e rinascita»
«Poi te ne sei pentita e l'hai rimesso insieme?» Alza la testa e mi guarda.
«Non me non sono pentita. È che per me non fa alcuna differenza, ormai. Volevo farlo vedere a lei, ma non mi andava di disegnarlo da capo. Tutto qui»
Sono stata sincera. Ho detto la verità. Bisogna sempre essere sinceri con chi vuole aiutarci e con chi ci vuole bene.
Vorrei tornare indietro per esserlo con mamma, ma è impossibile, perché le macchine del tempo non esistono.
Il silenzio mi ha logorato l'anima per cinque mesi e solo adesso ho capito che là fuori c'è tutto un mondo da scoprire, al di là della sofferenza e delle cicatrici che mi hanno segnata.
«Beh, disegnarlo da capo non sarebbe stata la stessa cosa, vero?»
«Eh no prof. Sarebbe stato insignificante. È stato tutto ... in quel momento»
«E adesso cosa è?
«Non so. Adesso è..» Ci penso. «Passato, credo. Ma non uno di quelli nostalgici. Un passato passato. Un passato serio, non so se mi spiego. Uno di quelli che ti ha fatto soffrire, ma che ti ha insegnato anche tanto. Uno di quelli che bisogna lasciare andare via»
«Sono felice che tu me lo abbia fatto vedere. È inutile che ti chieda di chi sono questi occhi e cosa ti hanno fatto di così male per farti soffrire?»
«Non penso che servirebbe a qualcosa. Però voglio ringraziarla. Senza questo disegno non sarei arrivata a capire delle cose importanti. Disegnare mi ha fatto bene, e anche strappare il foglio mi ha fatto bene. Sono stati dei processi liberatori, che per un attimo mi hanno anche un po' confusa. Come era possibile che il dolore mi trasmettesse anche gioia? In quel momento ho creduto di essere malata, e solo dopo ho capito che a trasmettermi benessere non era il dolore in sé, ma il dolore che scivolava via, che se ne andava. L'ho sentito bruciare dentro di me come il fuoco e avevo paura a liberarmene perché a un dolore che mi ha definita per tanto tempo mi ci ero abituata, in un certo senso. Lo consideravo come una parte fondamentale di me. Poi è andato via e a quel punto mi sono sentita un'altra. Ho capito che anche il dolore ha la sua importanza. Un mondo di persone che ridono continuamente non riesco a immaginarlo. Nulla avrebbe senso, se anche il male ci facesse ridere. Saremmo degli stupidi, no? Quindi l'importante è capirlo, il dolore. Buttarlo fuori e poi rialzarsi. Credo che... Sì. Credo che custodirò questo disegno in un cassetto, e quando lo riguarderò, chissà, potrò insegnare qualcosa ai miei figli, se ne avrò. In questo disegno c'è il dolore, ma anche ciò che il dolore mi ha insegnato»
«Cosa ti ha insegnato?» mi domanda.
«Non andare in macchina con gli sconosciuti e dire sempre la verità ai genitori?» rispondo ironica.
Ma neanche così tanto...
Ci mettiamo a ridere perché in ciò che ho detto c'è un pizzico di verità.
I genitori fanno le raccomandazioni ai figli e i figli, agendo in base all'istinto del momento, non sempre gli danno ascolto. Come non l'ho fatto io, non lo faranno neanche tanti altri adolescenti.
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Quando il vento mi accarezzò la pelle
General Fiction© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...