9 🌈 *Il sorriso del cielo* 🌈

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Nove anni prima (passato)

Ero seduta al primo banco della seconda a. Non mi arrivavano neanche i piedi per terra. La maestra Giulia stava spiegando la tabellina del cinque alla lavagna. La pioggia aveva appannato le finestre, e come condensa i vetri grondavano goccioline d'acqua, facendoci sembrare rinchiusi in una specie di congelatore.

Ma quando bussarono alla porta della classe, alle dodici, le nuvole si erano diradate già da un bel po' e un timido raggio di sole filtrava attraverso il cielo, riflettendosi sul mio grembiulino rosa.

La maestra interruppe la spiegazione e disse: «avanti.»

Sulla porta fece capolino il viso del signor Pietro, un uomo tutto d'un pezzo, spesso silenzioso, con pochi capelli in testa e dei grandi baffi grigi che tremavano durante i suoi rari attacchi di nervosismo. Gli occhi, solitamente seri e malinconici, mi guardarono tradendo un'emozione che mi fece battere il cuore un po' più forte del solito. «È venuta nonna Lucia a prenderti, Luana. Sta per nascere il fratellino» disse, e subito sentii addosso lo sguardo di tutti.

Prima di uscire, la maestra Giulia volle stamparmi un bacio sulla guancia. «Fai gli auguri alla mamma e al papà, ok?» si raccomandò, guardandomi seria dall'alto dei suoi stivali con il tacco.

Feci segno di sì con la testa cercando di non ridere. In quella posizione era buffissima. Poi uscii fuori dalla classe accompagnata dal signor Pietro.

Tutti sembravano emozionati: la maestra, il bidello, i miei compagni. Io però non sapevo come sentirmi, forse perché mi ero rassegnata a rimanere figlia unica per il resto della mia vita.

Invece ecco che alla veneranda età di sette anni diventavo una sorella. E non una sorella qualunque, ma una sorella maggiore. Avevo avuto nove mesi di tempo per prepararmi psicologicamente a questo evento, che richiedeva grande impegno e responsabilità. Tuttavia, non mi sembrava ancora del tutto vero.

La nonna mi stava aspettando in fondo al corridoio. Aveva addosso la maglia e il pantalone bianco che usava per ammassare pizze e panzerotti nella pizzeria che gestiva insieme al nonno; i capelli ricci, neri come la mamma, tenuti insieme da un tuppo disordinato, il giubbottone blu che scendeva fino alle ginocchia, il volto segnato dai sessanta che avanzavano. Sembrava impaziente di correre via. Salutò frettolosamente il signor Pietro, e dopo avermi afferrato la mano, volammo in macchina.

Per raggiungere Bologna dovevamo attraversare la provinciale. Sfortunatamente all'ora di punta il traffico era infernale. Riuscivamo a percorrere due chilometri in dieci minuti. La nonna guardava la lunga coda di macchine che ci precedeva, cercando di mantenere il controllo. Furono i suoi comportamenti, il picchiettare nervoso delle dita sul volante, a farmi capire che stava per accadere qualcosa di importante.

Arrivati nel parcheggio dell'ospedale, cominciai a farmi un sacco di stupide paranoie mentali del tipo: e se il mio fratellino è brutto cosa dico a mamma e papà? E se è antipatico? E se mamma e papà non mi vorranno più bene?

Per tutto quel tempo la lamiera della macchina mi aveva coperto la visuale del cielo. Solo quando scesi mi accorsi del fantastico connubio di colori che si congiungevano a forma di arco nell'azzurro infinito. E mi incantai...

La nonna mi aveva preso la mano e aveva cominciato a camminare verso la grande entrata con le porte automatiche, ma fu costretta a fermarsi a causa del mio intontimento, che la stava rallentando. Non riuscivo a schiodare gli occhi da lassù.

«Luana, piccolina, andiamo?» mi incitò, marcando le parole con il suo vago accento napoletano, ancora abbastanza vivido nella voce nonostante i trentatré anni trascorsi al nord.

Quando il vento mi accarezzò la pelle Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora