La strada si stende come un nastro grigio tra gli edifici di mattoni. I raggi di sole dell'autunno penetrano con timidezza tra le foglie ingiallite degli alberi, gettano sfumature dorate sul selciato ancora umido di rugiada e filtrano tra i tetti.
Cappuccio nero della felpa calato in testa, sguardo basso perché non voglio che la gente veda che ho pianto. Il marciapiede mi scorre sotto i piedi mentre cammino non lo so neanche io per dove. Una folata d'aria fredda autunnale gioca con i miei capelli, facendomeli cadere sul viso, e poi sugli occhi. Mi sento una viandante, non so cosa fare. Il mio viso ricomincia a macchiarsi di lacrime, che scorrono fino alle labbra prima che mi decida a scacciarle via con un palmo della mano. Il mio respiro e il rombo delle auto sono gli unici suoni che mi tengono compagnia mentre di default, come se i miei piedi non riuscissero a seguire i comandi del mio cervello, raggiungo la fermata del bus. La panchina sotto la pensilina è vuota: mi siedo pensando che ci rimarrò sopra finché non calerà la notte, e a quel punto potrò finalmente ritornare a casa.
Ma cosa farò domani, e dopo domani, e dopo domani ancora?
E dopo il diploma, cosa farò?
E se non avessi più voglia di fare nulla?
Ma cosa voglio per me stessa?
Basta. Ho deciso. Lo dico a mamma e papà. Sono i miei genitori, mi capiranno.
No, non posso.
Un altro giorno. Resisto un altro giorno.
Un giorno alla volta.
Domani poi ci penso.
Anzi, ultimamente ho parlato fin troppo. Io non devo reagire. Devo stare zitta, muta. Mi devo cucire la bocca. Non devo parlare con nessuno. Devo stringere i denti e andare avanti. Posso farcela. Devo!
Papà è uno che cavalca l'onda delle sensazioni. Secondo me a certe cose non ci fa neanche caso. In fondo è una delle persone più semplici del mondo: agisce come pensa, senza farsi troppe pippe mentali. E in un certo senso lo invidio proprio per questo. Lui è un privilegiato.
Mamma invece è tutto l'opposto. Prima di agire, pensa e ripensa centomila volte a tutti i pro e i contro della decisione che sta per prendere, anche se si tratta di acquistare un semplice paio di scarpe.
Non posso dare preoccupazioni a delle persone così buone. Il mio compito è quello di essere felice, studiare e uscire con gli amici, perché non riesco a farlo?
Perché non riesco a essere normale?
Il pullman accosta lungo il marciapiede. Sento lo sbuffo mentre si ferma, così famigliare eppure così estraneo.
Sollevo la testa, il viso rosso, e leggo la destinazione scritta a caratteri cubitali: BOLOGNA. Dovrei prenderlo, ma rimango seduta, ignoro lo sguardo vitreo dell'autista incazzato per essere lì sopra a lavorare alle nove di una domenica mattina autunnale qualunque, e lascio salire due donne con le buste in mano.
Il pullman riparte, qualcuno urla «FERMAAAAAAA» a squarciagola.
All'inizio non me ne accorgo, penso che le orecchie mi stiano giocando uno scherzo. Poi realizzo: quel qualcuno ha un nome, Mattia. Si ferma e sbuffa, osserva incazzato il pullman che si allontana fino a scomparire dietro i semafori alla fine della strada. Poi si gira verso di me e mi fulmina. «Ma sei scema, non potevi fermarlo?» Allarga le mani per indicare ciò che rimane del veicolo. «Mi hai pure sentito che gridavo! L'hai fatto apposta?»
«Oh, ma che vuoi? Chi ti calcola? Ne passa un altro fra poco, non rompere. Ah, e smetti di seguirmi per favore!»
Si punta un dito contro il petto e mi guarda come se non avesse capito. «Chi, io ti seguo?»
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Quando il vento mi accarezzò la pelle
Ficción General© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...