Entro in casa, avvolta dal profumo delle lasagne al ragù preparate da mamma. La tavola in soggiorno sembra quella di un'osteria, tovaglia e fazzoletti a quadretti e al centro la brocca di vino rosso. Mamma, papà e Andrea sorridono, felici per questa rimpatriata. A me invece brontola lo stomaco.
Mentre mamma serve la lasagna penso che potrei vomitare, ma non voglio fare la guastafeste e quindi mando giù i bocconi con forza.
Gli stimoli esterni mi sfiorano senza toccarmi davvero. Ai pensieri invece potrei dare una forma, pesano come detriti e si stanno rubando ogni centimetro libero della mia mente.
Dopo pranzo vado in stazione e prendo un treno per Bologna, da sola, per la prima volta dopo tanto tempo. Salgo per ultima e cammino lungo tutto il vagone prima di trovare quattro posti liberi.
A pochi minuti dall'arrivo sale una donna di colore. Ha l'aria affannata e una cascata di braccialetti tintinnanti intorno al polso. Si siede sul sedile di fronte al mio e stende le gambe, togliendosi le scarpe.
Vorrei dirle che le puzzano un pochino i piedi, ma taccio perché non sono cose carine da esternare, e anche perché ha la faccia stanca di una che ha macinato chilometri per tutto il giorno.
Quando la voce nell'altoparlante annuncia l'arrivo, sono sollevata. Raggiungo le porte scorrevoli e scendo dal treno.
Quello che sto per fare è sale che fa male, che rimargina le ferite, è il sacrificio per la guarigione definitiva, le ultime stille di sangue prima che si formi la cicatrice, l'atto che metterà un punto al dolore.
Mi guardo intorno e penso che tutto è così strano, in questo istante dove il vagare veloce di mille persone contrasta con l'immobilità di una sola.
Cerco il coraggio di affrontare il futuro in un'anima ammaccata dal dolore passato.
Aggiro le ferite, ma solo per guarirle.
Arrivi, partenze e ritardi spiccano sul grande schermo nero. Nel sottopassaggio rimbomba il rumore dei trolley. Le scale mobili mi portano in superficie, dove i rumori si intensificano e le mie intenzioni vacillano.
Rileggo per l'ennesima volta l'indirizzo di casa di Samuele per capire quale bus prendere, ma alla fine chiedo informazioni a un passante: orientarmi non è mai stato il mio forte e rischierei di perdermi.
Dopo aver cambiato due mezzi sotto un cielo grigio e a un freddo che mi penetra nelle ossa, capisco di essere arrivata in una dei quartieri più brutti della città.
Non riesco a crederci, mi sembra un sogno. Forse non è la realtà.
Qua la gente spaccia, si droga, fa risse. Ci nasce, ci cresce e ci muore e non se ne va mai, se non per fare un giro in questura con le sirene spiegate.
Una schiera di vecchie palazzine si erge in mezzo a un grande prato verde e incolto. Nell'aria c'è un odore sgradevole, come se qualcuno avesse pisciato per strada. Alcuni tizi poco raccomandabili mi fissano, ridacchiando su un marcipiade, mentre due signore dirimpettaie chiacchierano, spandendo i panni ai fili dei balconi.
Il piazzale sterrato intorno al quale si diramano i portoni delle palazzine è occupato da un gruppetto di bambini. Una, piccolissima, lancia un sassolino e saltella sulle caselle numerate per andare a riprenderlo.
La sua voce squillante mi fa sorridere e venire voglia di ritornare piccola per rivivere da capo i miei sedici anni, prendere delle scelte migliori, giocare di più a campana e lambiccarmi di meno il cervello con inutili paranoie su come sono, come mi sento o su come dovrei essere.
Sto capendo che è una contraddizione chiedere alla vita come si vive. Le risposte non le trovi facendo domande, ma sbagliando. La vita ci insegna la lezione solo dopo averci fatto commettere gli errori, come se il suo obiettivo sia farci errare per renderci saggi.
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Quando il vento mi accarezzò la pelle
General Fiction© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...