PROLOGO

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Quindici anni prima, 15 gennaio 2010

Non ero mai stata in Norvegia in vita mia. I posti miti o caldi li preferivo, ma quel freddo quasi polare era stranamente piacevole. Narvik, al nord della Norvegia, era estremamente gelida, ma sorprendentemente bella. La notte, tutto era in grado di diventare una meraviglia, grazie alla luce della luna.

Quella sera, poi, non era solo la luna a rendere magnifico il cielo. Eravamo lì in vacanza appositamente per vedere l'Aurora Boreale, perché mia madre amava osservare il mondo dell'astronomia. Fu per questo che scelse di chiamarmi Aylin. Come diceva il significato del mio nome, per lei ero come la luce della luna, e quindi ero la sua luce.

Vedendo mia madre sognare alla vista di quel paradiso, la seguii, e fu cosi che mi sembrò di parlare con la luna. Finalmente, all'età di cinque anni, qualcuno , o qualcosa, mi comprendeva. Fu quel giorno che mi innamorai di Lei.

«Koray, vieni subito qua, altrimenti non ti porterò mai più in giro.» Sentii gridare da una donna con un tono esasperato, ma non ci feci molto caso, perché la mia attenzione era dedicata alla forte luce.

«Porca miseria. Cosa stai combinando? È pericoloso.»
«Guardami, mamma. Ora si che sono come la luna.» In quell'istante, la mia attenzione venne catturata da un bambino strano, con i capelli riccioluti, mentre faceva cose strane quasi quanto lui.

Non riuscivo a capire che aspetto avesse esattamente, perché era abbastanza lontano da poter soltanto constatare che aveva i capelli ricci, e probabilmente anche un po' più lunghi della media. Non si comprendeva neanche cosa stesse facendo, perché era un misto tra il correre e il fingere di volare.

Principalmente, non mi colpì la sua stranezza, che lo rendeva un po' buffo, ma il suo nome, Koray. Mi ricordava il mio nonno materno che non avevo mai conosciuto ma che, come mi raccontava spesso mia madre, si chiamava Koray. È stato lui ha donarle la passione per l'astronomia.

Sorridevo, perché una parte di me voleva raggiungerlo e giocare con lui, ma mia madre mi teneva per mano, incantata, quindi tornai anche io a guardare il cielo. Lo sentii ridere, piangere, gridare, ma non ebbi più il coraggio di voltarmi per vederlo, perché avevo paura di essere vista di conseguenza. Erano pochi i momenti in cui ero a disagio per i miei pensieri e il mio aspetto un po' grassotello, e quella fu una delle poche.

Quando finalmente arrivò il momento di tornare all'albergo, lanciai un'occhiata laddove si trovava il bambino, ma non c'era più nessuno, quindi mi costrinsi a dimenticare questa cosa e mi focalizzai solo sulla magnifica luminescenza del cielo di quella sera. In fondo, potrei aver immaginato quel bambino, perché volevo solo aver avuto l'opportunità di conoscere mio nonno.

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