Capitolo 36 - L'inizio della fine (E&B)

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Eleanor, New York, 1993

Diciassette anni di nulla.

La mia vita fino a quel giorno era stata una collezione di insuccessi.

Ero una brava ballerina, eppure, non ero mai la prima scelta.

Ero una brava studentessa, eppure, non ero mai la prima della classe.

Ero una ragazza carina, eppure, nessun ragazzo mi aveva mai guardata.

Ero la figlia perfetta per i miei genitori, eppure, loro erano abbagliati dalla luce che emanava mia sorella, malgrado non rispettasse mai ciò che loro volevano per lei.

Ero mediocre, senza amici e senza prospettive realistiche.

Il diploma era ormai alle porte e io non avevo la minima idea di cosa potessi fare della mia esistenza subito dopo il lancio del tocco che avrebbe decretato la fine della mia adolescenza e l'inizio dell'età adulta.

Mi chiedevo cosa sarebbe stato dell'inutile Eleanor, o Nora come mi chiamavano in famiglia, ogni volta che Mer, mia sorella, mi costringeva a gelarmi le ossa fragili al di fuori del recinto scolastico.

Quello era il suo primo anno nella mia stessa scuola superiore, ciononostante era stata capace in qualche settimana di crearsi un nutrito gruppo di amici che, puntualmente, era costretta ad abbandonare per fare compagnia a me, nell'unico momento in cui essere sola mi faceva sentire più fallita di quanto già non lo fossi. Si sedeva a mensa con me, nel tavolo più isolato della grande sala, e poi, come se fosse stata dotata di un orologio svizzero biologico, cinque minuti prima del rintocco della campanella, mi obbligava ad accompagnarla a fumare una sigaretta di nascosto accanto alla vecchia rimessa del custode.

Era in quel momento, quando lei si omologava alla massa di stupidi studenti ricchi e annoiati, che mi domandavo con più insistenza cosa ne sarebbe stato di me.

Mi sentivo una foglia appassita in balia del vento e, forse, anche quando la mia strada sarei stata capace di trovarla, non avrei mai smesso di pensare a me in quel modo.

Mer si sdraiava sempre nella stessa posizione, sopra una panca di legno ormai ammuffito. Ogni volta apriva le gambe senza ritegno, malgrado le avessi detto in un milione di occasioni che l'uniforme scolastica non fosse proprio azzeccata per quel tipo di postura. Le vedevo indossare ogni giorno mutande sempre più striminzite e mi meravigliavo di quanto con il passare del tempo stesse diventando insofferente alle regole ferree che ci imponeva nostro padre.

Se di solito già non l'ascoltavo, quel giorno scelsi definitivamente di spegnere il cervello, quando cominciò a raccontarmi di come i suoi amici stessero litigando per chi avrebbe dovuto portarla al ballo d'inverno.

Mi concentrai invece che sulle sue parole sul contrasto incredibile che si creava tra l'erba rigogliosa del giardino della scuola e il freddo dell'acciaio dei grattacieli newyorkesi. Immaginai come sarebbe stato danzare libera a piedi nudi. Muovermi al ritmo del vento senza essere costretta a sentire la bacchetta di Miss Havisham sulla pelle. Senza concorrenza alcuna. Soltanto me e la casualità del movimento.

Fu allora, mentre i miei occhi erano velati da quell'immagine, che lo vidi.

Indossava la divisa maschile della Dalton, ma non nello stesso modo in cui lo facevano gli altri studenti. La camicia era lasciata aperta per i primi tre bottoni, mentre le maniche erano state ripiegate su loro stesse fino a lasciare intravedere quasi tutto l'avambraccio. I pantaloni sartoriali sembravano che stessero per esplodere attorno alle sue gambe muscolose, mentre ai piedi, invece che le solite scarpe eleganti, portava delle sneakers colorate in modo sgargiante.

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