Capitolo 2

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TEMPO PRESENTE

«E quindi... come ci si sente a essere tornati a casa?». Mio padre e io parlavamo in videochiamata dal computer che mi aveva comprato prima che partissi per l'Europa.

 «È fantastico, papà. Mi sono subito riambientata». Elencai i vantaggi contandoli sulle dita. «Ci sono cibo, soldi, nessun adulto, e delle birre ancora in frigo al piano di sotto. Sento puzza di festaaaa», lo provocai. Ma mio padre mi rispose pan per focaccia.

 «Be', ci sono anche dei preservativi in bagno. Usali se ti servono».

 «Papà!», sbottai, gli occhi sgranati per lo shock. Un padre non dovrebbe usare la parola "preservativo", almeno non se c'è sua figlia nei paraggi. 

«Stai... davvero... esagerando. Sul serio». Scoppiai a ridere. Mio papà era il padre che tutte le mie amiche sognavano di avere. Aveva poche, basilari regole: rispettare gli adulti, prendersi cura del proprio corpo, finire quel che si è cominciato e trovare da soli una soluzione ai propri problemi. Se prendevo buoni voti, dimostravo di essere assennata e seguivo quelle sue quattro regole, lui si fidava di me. Ma se lui perdeva la fiducia, io perdevo la libertà. È così che funziona con i genitori che fanno i militari. Semplice.

 «Quindi che programmi hai per questa settimana?», mi chiese, passandosi le mani tra i capelli biondi che si stavano ingrigendo. Avevo preso da lui i colori ma, grazie a Dio, non le lentiggini. I suoi occhi azzurri un tempo così intensi adesso erano annebbiati dalla stanchezza, e camicia e cravatta erano spiegazzate. Lavorava davvero duro. Io allungai le gambe sul mio ampio letto, felice di essere tornata a stare nella mia stanza.

 «Be', c'è ancora una settimana prima che cominci la scuola, quindi ho un appuntamento con una tipa dell'orientamento mercoledì prossimo per parlare dei corsi che seguirò in autunno. Spero che quelli che ho fatto in più l'anno scorso possano aiutarmi a entrare all'università nazionale di Seoul. Lei comunque dovrebbe darmi una mano con tutta questa roba. Poi farò un po' di shopping e mi vedrò con Mina, ovviamente».

 Volevo anche andare a cercare una macchina, ma lui mi aveva chiesto di aspettare il suo ritorno a casa, a Natale. Non che io non fossi in grado di sbrigarmela da sola, ma sapevo che voleva condividere quell'esperienza con me, e non volevo privarlo di quella possibilità. «Vorrei tanto che tu fossi qui ad aiutarmi con il progetto di ricerca per la fiera di scienze». Cambiai argomento.

 «Forse avremmo dovuto pensarci quando sono venuta a trovarti quest'estate». Mio padre er americano e si era ritirato dall'esercito dopo la morte di mia madre, otto anni prima, e lavorava per un'azienda che costruiva aerei e li vendeva in giro per il mondo, a Seoul, a circa un'ora di macchina di strada da casa nostra. Al momento però era in Germania, per tenere dei corsi di formazione di Meccanica. Dopo aver finito l'anno scolastico a Parigi, ero andata da lui a Berlino. Mia madre sarebbe stata contenta di sapere che viaggiavo, e io avevo in mente di continuare a farlo il più spesso possibile, una volta che avessi finito le superiori. 

Lei mi mancava moltissimo, soprattutto anni dopo la sua scomparsa più che nell'immediato della tragedia. In quel momento le portefinestre della mia stanza si aprirono all'improvviso, lasciando entrare la brezza fredda. «Resta un attimo in linea, papà». 

Saltai giù dal letto e corsi a dare un'occhiata fuori. Il vento mi carezzò le braccia e le gambe nude. Mi sporsi oltre la ringhiera e mi accorsi delle raffiche che facevano svolazzare le foglie e del bidone dell'immondizia che rotolava via. Gli alberi che costeggiavano la via, spandevano tutt'intorno l'odore dei lillà. Il temporale era alle porte e l'aria era carica di tensione. Mi vennero i brividi, non per il freddo ma per l'eccitazione della bufera in arrivo. Adoravo la pioggia d'estate.

 «Ehi, papà», lo interruppi mentre parlava con qualcun altro. «Mi sa che devo salutarti. Sta per mettersi a piovere e devo andare a controllare che le finestre siano tutte chiuse. Ci sentiamo domani?». Mi strofinai le braccia per placare i brividi.

 «Certo, tesoro. Anch'io devo andare. Ricordati che la pistola è nel cassetto del tavolino all'ingresso. Chiama se hai bisogno. Ti voglio bene».

 «Anche io. A domani». Chiusi il pc, mi infilai rabbrividendo la felpa dei Seethers e aprii di nuovo le portefinestre della mia stanza. Osservando gli alberi, mi ricordai di tutte le volte che mi ero arrampicata lassù a godermi la pioggia. Molte di quelle volte c'era Haechan con me... allora eravamo ancora amici. Un rapido sguardo mi bastò a prendere nota del fatto che la sua finestra era chiusa e che a casa sua, che si trovava a nemmeno dieci metri dalla mia, era tutto spento.

 Con gli alberi che facevano da collegamento tra le nostre finestre, mi era sempre sembrato che le case fossero in un certo senso unite l'una all'altra. Per tutto l'anno che avevo trascorso in Francia, avevo dovuto resistere alla tentazione di chiedere di lui a Mina. Persino dopo tutto quello che mi aveva fatto, a una parte di me ancora mancava quel ragazzino con cui avevo giocato da bambina. 

Ma Haechan ormai era sparito. Al suo posto era rimasto un odioso e insopportabile pezzo di merda che non mostrava nei miei riguardi nemmeno un briciolo di rispetto. Chiusi le portefinestre e tirai le grandi tende nere. Qualche istante dopo, il cielo sembrò squarciarsi con un crack e cominciò a piovere. 

Quella notte mi svegliai, incapace di ignorare i tuoni e i fruscii degli alberi contro le pareti di casa. Accesi la luce, saltai giù dal letto e corsi alla finestra a guardare il temporale. Intravidi i fari di una macchina che correva pericolosamente giù in strada. Cercai di vedere meglio e scorsi una Boss 302 Mustang nera che percorreva il vialetto di casa di Haechan. L'auto sbandò appena, poi si infilò nel garage. Era un modello nuovo con un'alta striscia rossa che correva lungo tutta la fiancata. Non l'avevo mai vista prima. A quanto ne sapevo, Haechan aveva una moto e una Mustang GT, per cui quella macchina poteva essere di chiunque. Forse avevo dei nuovi vicini? I miei sentimenti rispetto a quell'eventualità non erano chiari nemmeno a me. D'altro canto, la Boss 302 era proprio una macchina che sarebbe tanto piaciuta a Haechan.

 Dopo un minuto circa, la luce in camera sua si accese. Individuai una sagoma che si muoveva dietro la serranda. Le dita cominciarono a formicolarmi rendendomi difficile chiudere i pugni. Stavo cercando di riconcentrarmi sullo spettacolo che mi offrivano il vento e la pioggia, quando udii il rumore della serranda di Haechan che si alzava e la luce si riversò fuori dalla sua stanza. Strinsi gli occhi a fessura e lo vidi sporgersi oltre la finestra. 

Dannazione. Sembrava che si stesse godendo il temporale, come me. Riuscivo a stento a distinguere il suo volto tra il fitto fogliame, ma quando mi notò me ne accorsi. Le braccia con cui si teneva al davanzale si irrigidirono e inclinò il capo. Potevo quasi immaginare quei suoi occhi color cioccolato che mi trafiggevano. Non fece alcun cenno, né annuì. 

Perché mai avrebbe dovuto? La mia assenza non l'aveva reso più carino nei miei confronti, evidentemente. Di solito quando c'era lui nei paraggi avevo paura e mi agitavo, ma in quel momento... provai piuttosto uno strano mix di nervosismo ed eccitazione. Lentamente richiusi le finestre. L'ultima cosa che volevo era fare un passo falso e lasciar trapelare le emozioni che mi ribollivano dentro. Durante l'anno in cui ero stata via, avevo pensato ad Haechan ma non troppo, immaginando che il tempo e la distanza lo avrebbero portato a darsi una calmata. Forse, però, le mie previsioni erano state troppo rosee. E forse le sue cazzate non mi avrebbero più dato alcun fastidio.

 E forse le sue cazzate non mi avrebbero più dato alcun fastidio

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