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HUNTER


Mi accomodai al bancone di un lurido bar di quartiere e fissai a distanza quel tizio, Mustafa, accomodato con dei suoi amici ed intento a giocare a carte e a bere del the. Lo guardai digrignando i denti e placando a malapena la mia ira, in attesa che si allontanasse dal luogo per tornarsene nella sua topaia. Non m'importava se fosse padre di famiglia e non m'importava se avesse una moglie a casa che lo attendesse. Ciò che contava era che lui avrebbe dovuto pagare per l'errore commesso. Lui mi aveva toccato Ivy ed ora, doveva vedersela con me.
Nessuna clemenza.
Niente.
Mi sollevai dallo sgabello quando si alzò salutando gli altri e mentre lui uscì fuori dopo essersi acceso una sigaretta. Io lasciai i soldi sul bancone e lo seguii fuori nell'oscurità dei vicoli più stretti e solitari di Istanbul. Con vigilanza, si voltò a guardarsi attorno, avendo probabilmente percepito la mia presenza, ma me ne sbattei il cazzo. Ero lì per lui, solo che lui ancora non lo sapeva. Si diresse nell'edificio con l'insegna da meccanico, anche se probabilmente lo spazio veniva sfruttato per altro. Ciononostante, a debita distanza, riconobbi il veicolo di Ivy parcheggiato fuori vedendo l'uomo addentrarsi dalla porta opposta. Mi fumai una sigaretta ed infine mi precipitai lì volendo terminare il lavoro. Non sarebbe stato un lavoro pulito, in compenso, però, sarebbe stato un lavoro spietato.
Anche se nulla sarebbe bastato ad estirparmi fuori la rabbia. Mi avvicinai a quella porta udendo provenire da dentro una melodia classica che riconobbi all'istante ; Vivaldi - Le quattro stagioni.

«Commovente, figlio di puttana.» Bofonchiai tra i denti.

Mi bastò un solo calcio per sfondare quel marciume di porta affine di entrare.
Era grande, enorme, ma vecchio.
Perfino quando sollevai la testa notai che mancassero pezzi del soffitto. La musica proveniva dal piano superiore, così, senza perdere tempo percorsi la scalinata che mi condusse in un corridoio. Tre porte alla mia destra ed una alla mia sinistra. D'istinto raggiunsi subito quella, abbassai la maniglia e la schiusi abbastanza per dare un'occhiata. Il mio sguardo si sgranò con tristezza quando notai, ammucchiati per terra, svariati ragazzini che dormivano sul pavimento coprendosi con quel che potevano. Avevano tra i cinque ed i dieci anni e sembravano malnutriti, maltrattati ed abbandonati al loro destino.
Quell'uomo era un mostro.
Sfruttava loro per arricchirsi ; li faceva mendicare o peggio ancora, prostituire. Diedi un'occhiata alla stanza. La finestra era ricoperta con un pezzo di cartone affine di ripararli da freddo e vento. La stanza era piena di muffa,umidità, escrementi e cibo marcio sul pavimento. Probabilmente c'erano anche topi.

Il cuore mi galoppò in gola per l'ira.

Deglutii e tesi la mandibola così forte che pensai mi sarei spaccato i denti a furia di sfregarli tra di loro. Respirai affannato e a passo deciso mi diressi dalla parte opposta del corridoio, alla ricerca di quel bastardo. Altre due stanze erano piene di bambini. Chissà quanti altri ne teneva segregati affine di usarli per i suoi affari loschi. Quando entrai nella terza, con molta calma e senza fare rumore, lo trovai lì. Era accomodato su una poltrona dinanzi al camino e mi dava le spalle. Camminai lentamente senza fare il minimo rumore fino a piazzarmi dinanzi a lui, facendogli ombra con la mia sagoma. Solo allora si accorse di me.

I suoi occhi vispi si allargarono dal terrore. «Sen kimsin?» Di soprassalto, balzò sulla poltrona. Non capii che cosa mi chiese ma ebbi la netta sensazione che non volesse veramente sapere chi fossi. Quello che doveva invece sapere, era il perché mi trovassi lì.

Lo guardai.
Lo ammazzai con lo sguardo.
Lo tritai in minuscoli, miseri pezzi.

Cercò di scattare in avanti ma lo colpii con un pugno violento, sentendo scricchiolare le ossa del suo zigomo. Mugugnò risedendosi e massaggiandosi la zona dolente mentre cacciai fuori dalla tasca del giubbotto un coltello e glielo ficcai nella mano, inchiodandogliela al poggia braccio della poltrona. La lama aguzza squarciò la sua pelle penetrando la sua mano fino all'impugnatura. Il coltello rimase impiantato lì e l'uomo gridò dimenandosi. Acchiappai dalla tasca del giubbotto dei guanti neri che indossai con pacatezza, avendo la situazione sotto controllo, ma non bastava. Non mi stavo divertendo come volevo. Afferrai il telecomando della radio che aveva appoggiato sul tavolino strapieno di mozziconi di sigaretta ed alzai il volume al massimo mentre il petto dell'uomo si alzò e si abbassò voracemente per via della paura che innescai in lui. Quando i nostri occhi si incontrarono di nuovo, gli sorrisi. Ma fu un ghigno fermo, gelido, dettato dalla soddisfazione che avrei provato dopo averlo torturato.

HUNTER  2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora