Prologo

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Il genere di amore che conoscevo, e che vivevo nel mio quotidiano, lo avevo imparato dalla mia gente

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Il genere di amore che conoscevo, e che vivevo nel mio quotidiano, lo avevo imparato dalla mia gente. Ovviamente non parlo dei cittadini di Detroit che vivono fuori dal complesso residenziale dentro cui sono confinato, beatamente ignari o fortemente disturbati dalla nostra presenza.

Mi riferisco alla gente con cui sono cresciuto per ventotto anni. Mi riferisco agli uomini che mi hanno guidato giorno dopo giorno fino a rendermi la persona che sono oggi, spiegato la loro visione della vita, mostrato modelli di comportamento sregolati e privi di qualsiasi morale che ho osservato così a lungo da finire inevitabilmente per assorbirli ed imitarli.

L'amore che ho sempre vissuto è quel tipo di amore privo di legami, libero, che non segue nessuna regola, e che ho accettato di buon grado perché mi soddisfava -almeno nell'immediato- e perché era a portata di mano e privo di conseguenze.

Erano rapporti che appagavano il corpo, l'ego, che riempivano il tempo e ti permettevano di scaricare lo stress in eccesso; erano rapporti senza promesse, spesso senza baci, senza nessun altro tipo di intimità che non fosse fisica, senza un futuro e senza radici.

Era un tipo d'amore facile da ottenere e da padroneggiare, e non lasciava tracce sull'anima.

Il genere di amore che mi riempiva la mente e non usciva mai dai suoi confini, invece -quello che mi incuriosiva e mi stuzzicava i pensieri e la fantasia, quello che mi corteggiava come un gentiluomo d'altri tempi e mi ammaliava come la più affascinante e scaltra delle donne- lo avevo scoperto grazie a Bukowski.

Non lo avevo mai provato sulla pelle, e di certo non lo avevo mai cercato. Non sapevo di preciso come fosse fatto, che aspetto o che odore o che sapore avesse, ma lo leggevo tra le pagine di libri consumati e mi restava impresso. Era come una sensazione che ti si attacca addosso e non se ne va più via.

La lettura non era un hobby che mi aveva tramandato la mia famiglia, era qualcosa a cui avevo cominciato a dedicarmi da solo un pomeriggio di diversi anni fa. Ricordo di essermi fermato su una panchina, lontano da tutti, per schiarirmi le idee, e di aver trovato su quella panchina un vecchio libro usurato. Lo avevo sfogliato per noia, e mi ero ritrovato attratto da quelle parole espresse con ferocia. Avevo nascosto il libro dentro al giubbotto e lo avevo portato a casa, e dopo averlo letto tutto avevo cominciato a spendere soldi che non potevo permettermi di spendere in altri volumi logori -rigorosamente di quello stesso scrittore- che trovavo in antiche librerie dimenticate da Dio o alle bancarelle per strada.

Quell'uomo non era un poeta dolce e delicato. Al contrario, era rude, sporco, viscerale e crudo. Depravato. Si esprimeva senza censure e senza mezzi termini. Parlava di sentimenti e parlava di sesso. Parlava di legami che ti nutrivano e ti bruciavano l'anima.

Non era ancora abbastanza per farmi smettere di credere definitivamente che l'amore fosse una stupida invenzione dell'essere umano, un modo più elegante di descrivere il bisogno di legarsi a qualcuno per convenienza, per generare figli, per accoppiarsi.

Ma, scorrendo le sue parole, era difficile credere che anche quelle fossero generate esclusivamente dalla fantasia. Non erano metafore incomprensibili o parole prive di fondamento, erano messaggi che sapevano di realtà e verità, ed erano talmente intensi da portarmi a pensare che fosse impossibile scrivere di certe sensazioni senza prima conoscerle e provarle sulla propria pelle.

Non si poteva parlare di mancanze che straziavano, passioni che bruciavano e anime in fiamme senza prima aver vissuto tutto questo, giusto?

Quell'uomo sembrava aver sperimentato il perfetto equilibrio tra gli istinti sporchi che conoscevo bene e qualcosa che invece non conoscevo affatto. Le emozioni.

Quasi ogni notte mi portavo a letto una donna, lasciavo che il mio corpo si scaricasse, poi la mandavo via e mi mettevo a sfogliare uno di quei libri sgualciti. Soltanto così riuscivo ad acquietare anche la mia mente.

Leggevo del sesso e dell'amore, e di cose che mi erano sconosciute.

Forse quello di cui raccontava Bukowski era l'amore dei ricchi, o forse era l'amore dei folli.

D'altro canto, chi altro avrebbe spalancato le porte a un sentimento che ti stordiva, ti faceva perdere la ragione, ti fotteva il cervello e ti riduceva alla stregua di una bussola rotta?

Era qualcosa che in pochi potevano permettersi.

O che in pochi si meritavano.

E io lo meritavo? Dio, no.

Però c'era una frase che più di tutte insisteva nel darmi il tormento.

"Innamoratevi.
Almeno una volta nella vita.
Non importa per quanto, come o di chi, ma innamoratevi.
È tutto un gran casino,
ed è bellissimo".

Quella frase l'avevo addirittura segnata con una penna trovata in fondo a un cassetto del comodino.

Non capivo se fossi più terrorizzato dall'idea di provare qualcosa di simile o dall'idea di non provarlo affatto, mai.

E non capivo neanche perché dessi tanto peso alle parole di un vecchio ubriacone.

Anche se, in fondo, l'alcol zittisce la ragione e mette in contatto la mente con i desideri più autentici dell'anima, no? Ti annebbia i sensi, ma fa luce su qualcos'altro.

Ad ogni nuova pagina che leggevo, quella sensazione che non andava via si rafforzava. E sembrava suggerirmi che là fuori ci fosse qualcosa di più per me.

Nonostante mi avessero sempre ripetuto che là fuori, per quelli come noi, non c'era un cazzo di niente.

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