22 • Orsetti Gommosi Decapitati

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Apro gli occhi prima che suoni la sveglia

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Apro gli occhi prima che suoni la sveglia.

Il sacchetto con le caramelle è ancora abbandonato sulla scrivania, e sembra assumere un'aura sempre più minacciosa ogni volta che mi dilungo a fissarlo.

Non so nemmeno perché invece di buttarlo mi ostini a tenerlo lì, in bella mostra. Non so perché mi ostini a permettergli di darmi il buongiorno e la buonanotte ormai da ben tre giorni.

Se il biglietto che avevo erroneamente attribuito ad Ares lo avevo preso come un avvertimento, un modo per spaventarmi, quel pacchetto di caramelle lo interpreto come una minaccia.

Ancora una volta, quando quel pomeriggio, di ritorno dalla Bakery, ho trovato una confezione dei miei adorati orsetti gommosi sul davanzale della finestra, ho creduto che fosse stato Ares a regalarmeli.

Poi però avevo aperto il pacchetto, mi ero resa conto che non era sigillato come avrebbe dovuto essere, avevo guardato dentro... E scavando tra le caramelle mi ero accorta che ogni singolo orsetto era stato decapitato. Tutte le teste erano state staccate dal corpo in modo quasi maniacale.

E di certo quella non era una coincidenza, un difetto di fabbrica né niente di simile.

Avrei voluto chiamare Ares. Non mio padre, non mia madre, non un poliziotto.

In quel frangente volevo soltanto scomparire tra le sue braccia, o salire sulla sua moto e permettergli di portarmi via. Il più lontano possibile da Detroit.

Invece alla fine ero rimasta rintanata nella mia stanza, sotto shock per diversi minuti, e non avevo chiamato proprio nessuno, men che meno Ares.

Quella era stata l'ennesima conferma al fatto che ciò che ormai mi teneva legata a lui non fosse più il bisogno di sentirmi protetta, ma lui e basta. L'affetto -se così potevo chiamare quella matassa ingarbugliata di sensazioni che a causa sua aveva messo radici nel mio petto e nel mio stomaco- e basta.

Avevo ripensato alla domanda che mi aveva posto dopo avergli confessato che gli volevo bene, alla sua preoccupazione che gliene volessi per le ragioni sbagliate, e non volevo per nessuna ragione al mondo che credesse una cosa del genere.

Perché non era più vera.

E così avevo preferito non dirglielo. Non chiedergli di starmi ancora più vicino, ancora più attento.

In fin dei conti, di certo lui aveva già i suoi casini con cui avere a che fare. Casini che non ci andavano giù leggeri, che lo strapazzavano alla stregua di un panetto di pizza da prendere a pugni e modellare finché non acquisiva la giusta consistenza.

Un improvviso rumore di quelle che mi sembrano padelle che franano al suolo, che proviene dalla cucina, mi fa sobbalzare e mi distoglie da quei pensieri bui.

Mi alzo e raggiungo la cucina, trovandoci mia madre che sta tentando di preparare delle uova. Ha chiaramente i postumi di una sbronza perché si massaggia la testa, sbadiglia e fatica a teneri gli occhi aperti, e in più il suo aspetto è un disastro. Ha il trucco sbavato, i capelli raccolti per metà in una coda in cima alla testa e il pigiama abbottonato male.

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