Capitolo 11: Lorenzo

888 51 9
                                    

Al Mattino, nonmoriresolo.it era la novità del momento, e, quando misi piede in classe, l'unica cosa di cui si parlava era quel sito. Almeno cinque persone erano collegate in quel preciso momento, per mostrarlo agli altri o cercare qualcuno di interessante. Pensai, ancora una volta, di essere diverso dai miei coetanei anche in questo: l'iscrizione a quel supermercato non mi aveva entusiasmato minimamente, e il sito era scadente quasi quanto gli utenti iscritti.

Diana e Roberto sedevano vicini, ed erano così presi dal loro discorso che non si accorsero di me finché non salutai entrambi con un rumoroso buongiorno.

«...e poi l'ho messa a letto» fu l'ultima cosa che disse lei prima di vedermi.

«Buongiorno, amici adorati!» esclamai in modo ruffiano. Loro mi sorrisero, ma in quel sorriso leggevo la tensione che negli anni avevo imparato a stemperare. «Va bene, dai, non fate quelle facce: di cosa mi dovete parlare?»

Luca entrò in aula avvicinandosi a me, col cellulare in mano.

«Figa, guarda questa! Le tipe in 'sto sito sono una più bona dell'altra, oh!» esclamò, come se gli stessi prestando attenzione.

«Sì, Luca, lasciaci un attimo soli però» gli dissi. Lui annuì e, tornato subito serio, uscì di nuovo fuori dall'aula.

«Allora,» ricominciai, «che mi dovete dire? Dai, seriamente, basta segreti». Sorrisi per fargli capire che non ero arrabbiato, ma loro sembrarono rimanere immobili. «Oh, raga,» urlai a voce leggermente alta con ancora lo zaino in dosso, «e dai, figa, mi fate veni' l'ansia così». Non credo esista aggettivo più stupido di figa, e tutti sanno che quando lo uso è perché sono troppo curioso, o sorpreso. O arrabbiato.

«Mia mamma è incinta» annunciò Diana mentre mi toglievo lo zaino dalle spalle per posarlo sul banco. Era una notizia meravigliosa, ma lei non sembrava pensarla come me.

«Oh, Di',» sorrisi, «è bellissimo, vieni qui!». Si alzò per abbracciarmi, e i suoi capelli profumati di shampoo abbracciarono a loro volta le mie narici. «Era tutto qui il segreto?»

«No», disse dopo un po', staccandosi. Poi chinò il capo e la schiena, come a volersi assicurare che ciò che stava per dire restasse fra me e lei - e Roberto. «Ieri... l'ha rifatto».

«Che cosa?» domandai, ma due secondi dopo avevo già capito. «Cazzo, Di'», esclamai stupito. La strinsi a me ancora una volta e, mentre la sua testa poggiava sulla mia spalla destra, con la mano sinistra le carezzavo i capelli. «No, cazzo, ma come... Erano due anni», continuai.

Lei respirò profondamente. Sicuramente non avrebbe pianto, perché odiava mostrarsi debole in pubblico, ma riuscivo a sentire lo sconforto e la delusione che la tormentavano. «Il fatto è che... non voglio rifarlo più... Cioè, capisci?» disse poi. Si staccò dopo qualche secondo e sedette sul banco, proprio accanto al mio zaino. Nel banco accanto sedeva Roberto, che stranamente era rimasto in silenzio. Io ero di fronte a loro due, in piedi.

«Ho paura di ricominciare di nuovo come quando ero chiù nica» disse, e poi rimase in silenzio a fissare il vuoto. Dopo una breve pausa, aggiunse: «tu sai bene che cazzo ho passato, non ho proprio la testa per affrontarlo di nuovo, Lore. Cioè, io quel capitolo l'avevo proprio archiviato, poi ieri torno a casa e scopro che, porca buttana, per festeggiare si è ubriacata di nuovo. Ti rendi conto? S'imriacau per festeggiare!»

Non sapevo proprio cosa risponderle. Conoscevo Mirella da quando avevo nove anni, e ormai le volevo bene quasi quanto mia madre, ma, così come quando si sbronzava quasi tutte le sere, anche quel mattino non sapevo in che modo rendermi utile. Quando accadeva stavo vicino a sua figlia, certo, le dicevo che tutto sarebbe andato bene, le davo una mano a rimetterla in piedi, ma più di quello? Non potevo fare molto, così come la stessa Diana non poteva guarire definitivamente sua madre. Magari, però, quel bambino ci sarebbe riuscito.

La abbracciai di nuovo, cercando di trasmetterle un po' di energia positiva, anche se io non ne avevo. «Dai, Mafia». Sentii lei e Roberto soffocare una risatina, visto che le volte in cui l'avevo chiamata anch'io in quel modo si contavano sulle dita di una mano. «Ora siamo più grandi, siamo in tre, poi c'è pure Francesco a darci una mano, c'è tuo padre, ma comunque non significa che tornerà tutto come qualche anno fa. Anzi, secondo me questa volta non farà di nuovo gli stessi errori. Però oh, ascoltami,» le dissi mentre mi staccavo e le prendevo la testa fra le mani, per costringerla a guardarmi negli occhi, «se dovesse succedere di nuovo, non sarai mai sola. Capito? L'affrontiamo insieme, la superiamo insieme e fra qualche anno ci ridiamo su, insieme. Dai, che le siciliane sono forti» dissi. Avevo sempre adorato i suoi occhi, e in quel momento scorsi in loro una fievole fiammella di speranza, quasi come si fosse resa conto per la prima volta che non tutto, nella sua vita, era davvero perduto.

Dopo quel momento così toccante, comunque, presi posto dietro di loro senza avere occasione di dire nulla, perché il professore di matematica era entrato in classe silenzioso come un iPhone con la vibrazione. Mi sedetti accanto a Luca, proprio dietro a Roberto, e gli toccai le spalle cercando di non farmi beccare dal prof. Quando si fu girato, gli sorrisi nel modo più amichevole che conoscevo, tentando anche di fargli capire - sempre con lo sguardo - che mi sarei aspettato un saluto. Ovviamente non mi ero offeso, e lui lo sapeva benissimo, ma quel suo atteggiamento mi preoccupava non poco. Stava nascondendo qualcosa, e se pensava di dover avere segreti col suo migliore amico, voleva dire che non mi vedeva abbastanza di buon'occhio da confidarsi con me. O forse era arrabbiato perché non avevo risposto al messaggio del giorno prima?

Il professore di matematica era lo stesso che avevamo avuto fin dal primo anno di liceo. Per noi era un po' come un secondo padre, e il 20% delle lezioni di tutti e quattro gli anni erano state vere e proprie sedute dallo psicologo: chiunque sentisse di voler parlare di qualcosa alzava la mano, sceglieva cosa e quanto dire, e poi a turno la classe era autorizzata a dare dei consigli. Sarebbe stato un perfetto padre, e lo pensavamo tutti.

Fece l'appello e ci chiese cosa avessimo fatto durante l'estate. Poi, dopo dieci minuti, iniziò un discorsetto.

«Allora,» esordì, «questo è l'ultimo anno che passeremo insieme. So che sapete benissimo quanto io tenga ad ognuno di voi, e per questo non voglio lasciarvi con un brutto ricordo. Anche al quinto anno ci vedremo otto ore al mese e, di queste otto ore, due ho intenzione di dedicarle a voi, ma voi inteso come "persone". Ovviamente non potremo farlo sempre, perché quando inizierà l'anno nuovo dovremo metterci a pensare seriamente agli esami, ma per ora possiamo prendercela comoda. Quindi, ragazzi,» disse rilassandosi sulla sedia, «sapete già qual è la mia domanda: di cosa volete parlarmi?»

Ero tentato di alzare la mano per parlare della confusione che provavo in quel periodo, ma mi resi conto che i miei erano problemi sciocchi, paragonabili a quelli di - quasi - ogni altro adolescente, e quindi decisi di lasciar perdere.

Mi sarei aspettato che a prendere la parola sarebbero stati i soliti Domenico - alle prese col divorzio dei genitori - Beatriz - che continuava a lamentarsi di come in Spagna tutto funzionasse meglio - o Stefania - che diceva di sentire la mancanza di Michela dopo un litigio vecchio quasi un anno - e per questo lo stupore quasi mi fece cadere dalla sedia quando il professore disse: «Biggiani, prego»

Dimmi che esistiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora