Capitolo 22: Diana

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Oramai nel mio cuore c'era un'altra persona. Non era Lorenzo, non era Roberto e non era nessun ragazzo adolescente che mi avrebbe solo spezzato il cuore: io ero innamorata del mio futuro fratellino. E passavo le ore, Dio, i giorni, a sognare di quando l'avrei finalmente stretto fra le braccia. La notte, invece, lo sognavo già grande: sognavo di proteggerlo e renderlo felice, per regalargli l'infanzia speciale e serena che io non avevo avuto.

E poi, all'improvviso, mia madre beve per la seconda volta in una settimana e Francesco mi dice che potrebbe esserci qualcosa che non va.

«Che cosa? Che cosa c'è che non va?» gli risposi non appena ebbe lanciato la bomba. Ero terrorizzata, perché fino ad allora non avevo mai preso in considerazione un'ipotesi simile neanche per un secondo. Eppure era molto probabile che lui avesse ragione: una gravidanza in così tarda età, il bimbo che nuota nell'alcol ingurgitato da sua madre...

«Ma io non lo so, è un presentimento. Però devono dirci la verità, hanno detto. E quindi... che cazzo...»

Lorenzo e Roberto non dicevano nulla, quella notizia non ancora ufficiale per noi tre era già tanto ufficiale da averci raggelato. Melissa, invece, continuava a guardare altrove gettando di tanto in tanto qualche occhiata furtiva a me o a mio fratello. Chissà a cosa pensava, in quei momenti. Che famiglia di merda, che madre snaturata, che figli cretini. E non avrei potuto, non avrei certo potuto prendermela con lei, se fossero stati davvero quelli i suoi pensieri. Perché, cazzo, erano anche i miei. Era esattamente quello che pensavo io.

«Calmiamoci tutti, ragazzi» disse Lorenzo, e Francesco si fermò a guardarlo. I sensi di colpa cominciarono a salirmi in gola così velocemente che pensai di stare per vomitare, e il semplice pensiero mi fece credere di vomitare ancora di più, anche se riuscii a trattenermi. «Magari la verità che devono dirvi è che sono due gemelli, ci avete pensato?»

Mio fratello guardò il pavimento, triste. Rialzato che ebbe lo sguardo, gli rispose preoccupato: «E che motivo avrebbero avuto di nascondercelo fino ad ora, me lo spieghi? E se scopri che aspetti due gemelli non è che prendi e cominci a fare di nuovo la 'mmriacuna, porca troia. Che cazzo di reazione è? Anziché esserne contenta!»

«Fra, aspetta,» lo interruppe Berto, «lo sai benissimo qual è il passato di vostra madre. Cioè, cazzo, è normale che una notizia del genere potrebbe averla spaventata, non gliene possiamo fare una colpa».

Come no? Certo che avremmo potuto, minchia. C'erano così tante cose per cui prendersela con mia madre. Cose di cui nessuno si rendeva conto davvero, cose che poteva capire solo una bambina che a sei anni aveva dovuto imparare a fare il bucato per pulire gli abiti sporchi di vomito della propria mamma. Mi odiavo quando pensavo a cose non tanto belle su di lei, ma la verità era che non riuscivo ancora a perdonarla per tutto ciò che mi aveva fatto, seppur inconsapevolmente.

«Chiamali» proposi, distaccata. Mi sentivo così dannatamente cattiva per quello che pensavo in quei momenti, ma non siamo noi a comandare i nostri pensieri più reconditi. E quindi per me andava bene anche che fossero morti entrambi, io volevo solo che il mio fratellino stesse bene. O la mia sorellina, Cristo. Non poteva avere qualcosa che non andava.

«Aspettiamo un po', magari sono ancora in ospedale e gli rompiamo il cazzo» disse Francesco. Evidentemente non riusciva a capire quanto poco mi importasse di loro in quel frangente. Presi il cellulare che avevo in tasca e composi il numero con la rabbia che mi usciva dalle orecchie. Chiamai papà, perché con quella non volevo neanche parlarci. Eppure avrei dovuto, avrei dovuto parlarci e dirle che io ero sempre sua figlia e sarebbe andato tutto bene, perché aveva bisogno di noi. Mi facevo così schifo ad avercela con lei in quel momento così difficile, ma, per quanto tentassi di concentrarmi su tutte le cose positive che aveva fatto per me, in mente avevo sempre i soliti ricordi negativi: lei che ubriaca a quattro anni dice che avrebbe dovuto abortirmi, lei che per giorni non mi rivolge la parola perché, a sette anni, mi sono permessa di dirle che in quelle condizioni fa schifo.

«Pronto?». La voce di papà dall'altro capo era agitata, ma allo stesso tempo tranquilla.

«Dove minchia siete?»

Lorenzo, Melissa, Roberto e Francesco alzarono subito lo sguardo verso di me per seguire la conversazione.

«Diana, quante volte devo dirti che non mi piace quando parli in dialetto?»

«Papà,» dissi, con calma, «dimmi dove siete».

«Siamo in ospedale, penso che fra qualche ora torniamo».

«Ma che è successo? Ti rendi conto che qui siamo tutti con l'ansia? Che cazzo è successo, papà?». Volevo urlare, ma avevo una tale rabbia in corpo da non riuscire neanche a parlare.

«Quando torniamo vi spieghiamo tutto» fu la sua sola risposta.

«Il bambino come sta?»

«Sta bene, sta bene, state tranquilli, tutto bene». Ovviamente era una bugia, pensava davvero che ci sarei cascata?

«Ha qualcosa che non va, eh? Dimmi la verità, papà, per favore. Cioè, dici che dobbiamo stare tranquilli ma non mi dici che va tutto bene».

«Va tutto bene, ci sentiamo dopo». Soffocai una lacrima quando mi resi conto che dall'altro capo non c'era più nessuno ad ascoltare. Era questo ciò che eravamo sempre stati io e mio padre: il soldato semplice e il generale che dà gli ordini. Non parlare in dialetto, non dire parolacce, non urlare, non andare a letto troppo tardi, non rompere a tua madre quando ha i postumi.

«Di'? Che ha detto?» mi chiese Lorenzo.

«Abbracciatemi» risposi io. Ammetto che quella telefonata, seppur in parte, mi aveva tranquillizzato. Il bambino era in vita, perché altrimenti papà non avrebbe risposto in quel modo. Ma mi sentivo così sola, così poco considerata. Dopo dieci secondi quattro persone mi stavano stringendo: anche Melissa era fra loro, e quando vidi che mi stava abbracciando mi sentii per un secondo speciale, speciale per aver distrutto - anche se solo in minima parte - il muro che lei si era creata. Il prossimo passo sarebbe stato l'essere guardata negli occhi, magari anche durante l'abbraccio, ma ogni cosa a suo tempo.

«Oh, Mafia, che ha detto allora?» mi chiese Roberto tentando di dirlo nel tono più dolce possibile. Mi sussurrava all'orecchio mentre tutti e quattro continuavano ad abbracciarmi. Pensai che quello fosse il secondo abbraccio che ricevevo da mio fratello durante l'anno: il primo era stato al suo compleanno, probabilmente.

«Non ci ho capito un cazzo» dissi con la mia solita delicatezza, fingendo un sorriso. Il momento di debolezza era già passato: non potevo permettermi di essere triste, di piangere o di fare la depressa, perché dovevo prendermi cura della mia famiglia, e soprattutto di mia madre. Così come avevo sempre fatto.

Lorenzo sorrise, probabilmente per darmi coraggio. «Tutto bene, quindi?». Nel frattempo Melissa si era staccata ed era tornata a sedersi nel punto esatto in cui era seduta prima.

«Lo spero» dissi tranquilla. Lo spero, pensai nervosa.

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