Capitolo 16: Melissa

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Il cuore sembrava esplodermi dal petto.

Non sapevo bene cos'avessi dovuto aspettarmi da quel primo giorno di scuola. L'idea di essere in classe con ragazzi più piccoli di me non suscitava certo la mia felicità, ma la mia paura più grande era più che altro l'essere giudicata appena avessi messo piede nell'aula.

In fondo, come avrebbero potuto non riconoscermi? Tutti, in quella scuola, erano al corrente del mio passato: ogni alunno, ogni insegnante, chiunque sapeva cosa avevo fatto. Eppure io ero cambiata, non ero più la Melissa di due anni prima. Avevo tentato, negli ultimi mesi, di farlo capire anche alla gente che avevo intorno, ma quando mi sorridevano e facevano finta di aver dimenticato tutto, l'unica cosa che riuscivo a leggere nei loro occhi era la compassione, la compassione tipica di chi ti considera una pazza.

Ero pronta a ricominciare la scuola, anche se solo per l'ultimo anno. Mia madre aveva insistito per mesi affinché mi convincessi a ripartire dal quarto anziché dal quinto, ma io non ne capivo il senso: avevo già sprecato troppo tempo, ed ora bisognava pensare a riprendere in mano la mia vita.

Era il 28 settembre, e le lezioni erano ricominciate da circa una settimana. Avrei preferito, neanche a dirlo, partire insieme a tutti gli altri, ma la mia genitrice non me ne aveva dato il permesso. Ci sarebbero state troppe persone, durante i primi giorni, e la folla avrebbe potuto shockarmi troppo. Almeno secondo lei.

Con il mio amato Prozac che mi nuotava nello stomaco e nel sangue, quindi, la mattina del 28 mi feci strada in segreteria ancora intontita. Sorridendo, senza dire nulla, mi avviai in aula. Quando spalancai la porta il professore della prima ora non era ancora arrivato, e mi trovai davanti a circa venti persone, fra ragazzi e ragazze. Qualcuno chiacchierava, qualcuno ripassava una materia non meglio specificata.

Posso dire che tutti, chi più chi meno, mi guardarono dalla testa ai piedi, seppur tentando di farlo senza che me ne accorgessi. Ma come potevo non accorgermene? I loro erano gli stessi sguardi che chiunque, quando mi incontrava per la prima volta, provava a rivolgermi non appena mi giravo o mi distraevo. Tentavano di capire se fossi davvero pazza, di spiegarsi perché una mente brillante come la mia avesse mollato la scuola al quinto anno. Tentavano di capire me, soprattutto, ma si arrendevano all'evidenza nel giro di qualche minuto. E l'evidenza era che io ero impossibile da capire. Per tutti, soprattutto per me stessa.

«Ciao». Una ragazza carina si avvicinò e mi sorrise, tendendomi la mano. Ci fissammo per qualche secondo e, quando capì che non avrei risposto al saluto, la porto via mettendosela in tasca.

«Tu sei Melissa, vero? Io sono Diana, piacere di conoscerti» aggiunse. Mi fu subito lampante: lei era la ragazza incaricata di non farmi sentire esclusa, la ragazza che avrebbe dovuto accogliere la pazza. Annuii al saluto e mi sedetti accanto a lei, nell'unica sedia che avevo visto vuota.

«E che cazzo, Mafia» urlò una voce che divenne via via sempre più vicina. Quando il ragazzo fu entrato nel mio campo visivo pensai che fosse davvero bello e che, probabilmente, si stesse arrabbiando perché la ragazza mi aveva fatto sedere in quello che prima era il suo posto. Prima.

«Oh, Berto, dai» gli rispose lei, che nel frattempo anziché avvicinarsi a lui si era avvicinata a me. «E' la ragazza nuova, non fare l'antipatico come sempre, che cazzo» aggiunse poi. Collegai che lui dovesse chiamarsi Roberto, e lei Mafia. Mi aveva detto di chiamarsi Diana, ma forse Mafia era il suo cognome.

«Ignoralo, eh,» mi disse quando si fu seduta accanto a me, «può sembrare stronzo ma in realtà è un pezzo di pane». Non che ciò mi interessi, avrei voluto risponderle, ma decisi di lasciar correre per evitare di apparire troppo antipatica. «Si chiama Roberto» si ricordò poi. Lo chiamò urlando, e lui, che nel frattempo si era allontanato, tornò di nuovo verso di noi e mi tese la mano. Dopo qualche secondo capì la situazione e fece lo stesso gesto di Diana, aggiungendoci però una faccia perplessa.

«E va be', sei timida. Io sono Roberto, comunque» disse sbrigativamente, come se prima non avessi avuto modo di capirlo. Pensava forse fossi stupida? Le orecchie le avevo anch'io, se non l'aveva notato. Senza neanche degnarmi di un ulteriore sguardo, si girò e tornò a conversare con un altro ragazzo. Tenevano in mano un cellulare e parlavano, da quanto riuscii a capire, di un sito web.

«Alla prima ora comunque abbiamo spagnolo, non so se lo sai» disse Diana.

«Lo so» bisbigliai. Lei mi lanciò un ennesimo sorriso e iniziò a tirar fuori dallo zaino i libri e il quaderno.

«Allora, da quant'era che non mettevi piede in una scuola?» mi domandò, tentando di portare avanti la stupida abitudine umana di riempire il silenzio con parole vuote. Domande sciocche come quella erano il motivo per cui avrei voluto evitare di capitare in classe con dei bambini. Purtroppo, però, non avevo avuto altra scelta. Ovviamente non risposi alla sua banalità, ma lei non si diede per vinta e cominciò a mostrarmi degli appunti, parlandomi degli esami, del rapporto con gli insegnanti e di altre cose tanto poco interessanti quanto non richieste.

Dopo qualche minuto - in cui io non avevo più aperto bocca - il ragazzo che prima stava parlando con Roberto si avvicinò a lei e, notandomi, mi lanciò un sorriso. Vidi, nei suoi occhi, la dolcezza che fino a poco tempo prima ero convinta di vedere nei miei.

«Ciao...» disse, imbarazzato. «Io sono Lorenzo, tu come ti chiami?»

Non mi aveva teso la mano, e ciò gli aveva fatto guadagnare almeno un milione di punti.

«Melissa» bisbigliai, guardando la lavagna dietro di lui. Odiavo guardare le persone, quando ci parlavo. Mi ci vollero pochi istanti, osservandolo, per rendermi conto di dove l'avessi già visto: aveva accompagnato una donna alla riunione che, qualche tempo prima, gli alcolisti anonimi avevano organizzato per aggiornarsi sui loro progressi. Ricordai anche di averci anche scambiato qualche parola, con quella che probabilmente era sua madre. Come si chiamava? Miriana... Mirella. Sì, Mirella. Per un istante tentai di immaginare la sua vita alle prese con una mamma alcolista, l'inferno fra le mura di casa e la finta serenità indossata a scuola, e mi domandai se quei due suoi amici conoscessero il segreto.

«Melissa, capito» disse Lorenzo accennando un altro sorriso. «Spero che ti troverai bene, tutto sommato siamo una bella classe». Nel frattempo Roberto si era avvicinato a noi tre e, curioso, partecipava con lo sguardo alla conversazione.

Dopo quella sua frase avrei dovuto dire qualcosa, magari sorridere per far vedere che avevo capito, ma proprio non mi sembrava necessario. Restai a fissare la lavagna per qualche secondo, tanto che lui si girò, preoccupato, pensando che stessi guardando un oggetto in particolare. Constatata la mia scarsa loquacità mi sorrise di nuovo e disse: «Se hai bisogno di qualcosa, io sono qui», ma le sue parole furono interrotte dall'ingresso di quella che - probabilmente - doveva essere l'insegnante di spagnolo.

Lui e Roberto presero posto dietro di noi, al terzo banco. Sperai con tutta me stessa che l'insegnante non mi facesse domande alle quali avrei dovuto rispondere davanti a tutti, e fortunatamente così fu, e si limitò a sorridermi e a dirmi benvenuta abbassando lo sguardo. Atteggiamenti come quello mi schifavano nel profondo, perché volevano dire che ero davvero guardata come la pazza di turno, come la ragazza a cui prestare più attenzione degli altri, perché altrimenti avrebbe di nuovo tentato il suicidio durante le lezioni.

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