La giornata scolastica finì alle 12:30, perché i primi giorni di lezione erano sempre più corti dei successivi. Sarebbe stato fantastico se anche durante l'anno fossimo rimasti in classe solo quattro ore, ma, da sfigati quali eravamo, un desiderio del genere non si sarebbe mai potuto avverare.
Quando Roberto tornò dalla sua pausa bagno lunga tipo trenta minuti, Beatriz aveva appena finito di parlare di come in Spagna la televisione fosse meno volgare di quella italiana e di quanto avrebbe voluto tornarsene lì subito dopo la maturità. Ero sicura che tutti, in quel momento, stessimo pensando torna da dove sei venuta e smettila di frantumarci i coglioni, ma eravamo semplicemente troppo delicati per poterglielo dire apertamente.
Si sedette vicino a me e mi sussurrò che anche Michela si era iscritta a quel sito per single senza speranze. Lentamente ci girammo a guardarla, al lato opposto della classe, e la osservammo: aveva un piccolo astuccio per le penne e, nascosta dietro Leo, cazzeggiava col cellulare sorridendo di tanto in tanto. Berto mi aveva anche fatto leggere il messaggio che gli aveva mandato prima e, da una parte, quelle frasi tanto carine quanto sgrammaticate mi fecero pensare che forse non era poi così zoccola. Forse era semplicemente innamorata di Lorenzo, e proprio per questo forse avevamo anche più cose in comune di quanto pensassimo.
In ogni caso, Roberto mi disse che le avrebbe scritto nel pomeriggio. Voleva provare a parlarle durante le lezioni, ma i professori erano sempre tutti in anticipo, e quindi non ne avrebbe avuto il tempo. E poi c'era anche il fatto che Lorenzo si sarebbe potuto insospettire. La giornata quindi passò così, fra i sorrisi che mi rivolgeva lui e le preoccupazioni che leggevo in Berto. Era talmente spaventato di aprirsi col suo migliore amico da farsi venire a prendere, dopo le lezioni, da quella povera crista di sua madre: appena l'ultima campanella fu suonata si precipitò fuori dall'aula congedandosi da noi con un semplice "ciao".
Per fortuna - anche se di solito la cosa mi dispiaceva - io e Lorenzo abitavamo in zone diverse della città, e quindi per tornare a casa facevamo strade opposte. Non poté sfogare con me i suoi dubbi, tanto che prima di salutarci l'unica cosa che mi disse fu "sai perché Roberto è così strano?". Io gli sorrisi e gli dissi che, se c'era qualcosa in particolare, gliene avrebbe parlato lui quando sarebbe stato pronto.
Arrivata a casa, fui convinta di essere entrata nel posto sbagliato: c'era un bellissimo odore di detersivo al limone, i pavimenti splendevano e mia madre canticchiava mentre armeggiava ai fornelli. Posai subito lo zaino in cameretta e mi precipitai da lei.
«Buongiorno, amore della mamma!» disse mentre mescolava quello che credetti essere sugo di pomodoro.
«Che è successo? Dobbiamo festeggiare?» chiesi io.
«Dobbiamo festeggiare il fratellino o la sorellina in arrivo» mi rispose, poi posò il mestolo e venne ad abbracciarmi. «E poi devo farmi... perdonare» mi sussurrò nell'orecchio destro.
«Ma... papà...» balbettai a voce bassa, perché non volevo lui lo venisse a sapere o ci sentisse parlarne. Non era necessario che soffrisse tutta la famiglia: il segreto lo custodivo già io, ed era sufficiente.
«A papà e Francesco ho detto tutto stamattina» disse liberandosi e incamminandosi di nuovo ai fornelli per girare il sugo. Tutto?
«Ah... e come hanno reagito?»
Onestamente quella notizia non mi rendeva poi così felice, perché il fatto che lo sapessimo tutti voleva dire che la cosa era reale. Mia madre aveva ricominciato a bere e stavamo tornando a qualche anno fa, e ogni volta che ci pensavo mi venivano i brividi sulle braccia.
Lei mi guardò girando la testa a sinistra, e con quello sguardò tentò di trasmettermi quella tranquillità che ormai, a diciassette anni, non poteva più pensare avrei accettato.
«Hanno capito... hanno capito» si limitò a dire. Hanno capito che cosa? Che sei di nuovo un'ubriacona? pensai, e, come spesso succedeva, mi sentii in colpa perché non riuscivo a rendermi conto di quanto fossi fortunata. Perché, cioè, ero fortunata... mia madre era un'alcolizzata che mi aveva fatto crescere senza autostima e con l'ansia a mille, ma ero fortunata. Insomma, c'era chi i genitori non li aveva proprio. Quelli sì che erano sfortunati... già.
Notando il mio silenzio, mamma decise di riprendere il discorso. «Lo sai che io e papà non siamo più così giovani, e quindi questo bambino non era programmato...» disse, poi sospirò per un periodo stranamente lungo e, continuando a guardarmi, mi rivolse un altro sorriso. Ma, cazzo, neanche capiva quanto fosse inutile? Non puoi passare quindici anni a distruggere una persona e pretendere di rimetterla in sesto con un sorriso. L'aveva fatto - il distruggermi - involontariamente, va bene, perché di certo diventare un'alcolizzata non era stata una sua scelta, ma l'aveva fatto lo stesso, e io proprio non riuscivo a dimenticarlo.
«Lo so,» la interruppi, «ma è comunque una bella notizia, no?»
«La notizia più bella che si possa ricevere» mi corresse lei, «ma quando ho fatto il test ero da sola a casa e sai, Diana, il mio primo pensiero è stato quello che ho passato quando voi eravate piccoli. Tu che piangevi, Francesco che iniziava la scuola, e io mi sentivo sola perché papà era sempre via giorni e giorni... e ti giuro che io non ho mai voluto farlo, ma per evitare di impazzire mi attaccavo alla bottiglia».
«Sì» risposi nel tono più freddo che riuscissi a trasmettere, come a farle capire che non m'importasse nulla e a tentare di mostrare che a quelle parole in realtà il cuore non mi si stesse spezzando, «lo so che sei stata da sola, però ora è diverso, no? Noi siamo grandi, papà è più presente... Giusto?»
«Giusto,» disse lei mentre salava il sugo e continuava a girarlo, «ecco perché quello di ieri è stato solo un... un brutto errore». Notai che gli occhi le stavano diventando rossi, e forse fu colpa del fumo che sprigionava la pentola o dei ricordi che sprigionava quel discorso, ma mi avvicinai a lei e la strinsi da dietro. Lei sorrise e, dopo quel mio gesto, si lasciò andare e iniziò a piangere.
«Non è colpa mia...» riuscì a dirmi. A me non veniva da piangere, perché negli ultimi tempi avevo imparato ad essere anche più forte del necessario. Era mia madre, e forse chiunque nei suoi panni sarebbe caduto in depressione. Non potevo avercela per sempre con lei. Ma, Dio, era mia madre, e non era giusto che a causa sua io avessi passato un'infanzia come quella che avevo passato.
Avevo una guerra, dentro di me.
«Oh, mamma, è passato, dai. E' passato, sì?» le dissi, e poi le diedi un bacio sulla guancia, sempre stringendola da dietro. Per fortuna eravamo alte uguali.
"Sì, è passato" era la risposta che mi aspettavo. Invece lei continuò a piangere, senza avere il coraggio di dirmi nulla. Mi preoccupai un po', perché di solito non era una tipa così emotiva, ma forse era un bene che stesse imparando a lasciarsi andare.
«Mamma?» dissi, dopo qualche minuto. Piangeva ancora, e io continuavo a stringerla. La sua unica risposta furono singhiozzi lenti e costanti, e a me venne in mente di quando avevo otto anni e mi sbucciai le ginocchia cadendo dalla bicicletta, nel cortile della nostra casa a Palermo. Piangevo esattamente come lei in quel momento, e urlavo disperata perché venisse a stringermi e a dirmi che non era successo nulla, ma lei invece era in casa, svenuta, con la bottiglia vuota cinta dalle dita tremolanti.
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Dimmi che esisti
Teen FictionCosa succede quando non sai di chi sei innamorato? La storia di Lorenzo si intreccia a quella dei suoi migliori amici, Diana e Roberto, alla spasmodica ricerca di se stessi durante l'ultimo anno di liceo, impegnati tutti e tre a risolvere un mistero...