Capitolo 5

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ELYAS

Oggi






Sono stato in queste catacombe qualche settimana fa e al solo pensiero di quello che può farci Sascia mi si contorcono le budella. Per quanto io sia un cazzo di sadico, lui è peggio di qualsiasi essere umano abbia mai incontrato. Non c’è pietà nei suoi occhi, solo la crudeltà di chi ha visto l’inferno e ha deciso di portarlo con sé ovunque vada. Qui sotto, l’aria è pesante, satura di umidità e di un odore acre che mi si attacca ai polmoni.

Artem è davanti a me, insieme a Rick. Mi fanno strada verso uno dei tanti tunnel, le loro ombre si allungano sulle pareti di roccia mentre accendono le torce man mano che scendiamo in profondità. La luce fioca delle fiamme danzanti deforma i lineamenti, fa sembrare i loro volti quelli di demoni emersi dagli abissi. Il sudore mi incolla la maglietta alla pelle, nonostante il freddo. Non sono mai stato così nervoso, nemmeno quando mio padre mi fece uccidere un uomo per la prima volta. Ma quella era un’altra storia e un’altra vita, mentre questa notte è solo l’inizio.

Mio padre.

Il pensiero di lui mi incendia il sangue e mi fa prudere le mani. L’idea di averlo davanti, finalmente, di poterlo guardare negli occhi mentre lo riduco in pezzi, mi fa sentire vivo come non lo sono mai stato. Sento le pulsazioni nelle tempie, la mascella serrata così forte che mi fanno male i denti. Lo voglio annientare. Lo voglio far urlare fino a quando il suo stesso respiro non lo tradirà.

All’improvviso, la grotta si apre davanti a noi, rivelando una stanza illuminata da lanterne. L’aria è stagnante, il tanfo di sangue rappreso e muffa si mescola alla polvere che ricopre ogni superficie. Due enormi crocifissi di legno capovolti si ergono al centro della sala, le lunghe catene che pendono dal soffitto tintinnano leggermente al nostro passaggio e il ferro arrugginito emana un odore dolciastro, familiare.

«È qui che inizia il nostro addestramento?» La mia voce riecheggia sulle pareti di pietra, ma Artem si limita a emettere una risata roca.

«No, messicano» sospira, scrutando la caverna con uno sguardo stanco ma attento. «Questo è solo il preludio. Sascia lo usa per far sì che le sue vittime si caghino sotto prima di portarli nelle caverne. Noi verremo rinchiusi in una gabbia.» Lo dice con una naturalezza che mi fa venire la nausea.

«Già. Chissà quali bestie avrà portato stavolta.» Rick si passa una mano sulla barba incolta, con un ghigno che tradisce eccitazione più che paura. Lui ha già vissuto questa esperienza, lo vedo dal modo in cui il suo corpo sembra rilassato, come se stesse solo aspettando che inizi lo spettacolo. È un fottuto psicopatico, ma in questo momento lo invidio.

Vorrei avere la sua sicurezza.

Mi piace pensare che una volta uscito da qui riuscirò ad affrontare tutto con lucidità, che Alys tornerà tra le mie braccia e capirà che è sempre stata mia. Ma la verità è che sta scavando una fossa tra noi, e più cerca di allontanarsi, più la mia determinazione cresce. Non aspetterò oltre. Andrò a prenderla con la forza e la terrò al mio fianco, come è giusto che sia. Perché so di averla ferita, ma so anche che quello che crede io abbia fatto non è mai accaduto. Se non vuole capirlo, glielo farò entrare in testa a suon di schiaffi sulle chiappe.

«Quali bestie?» domando, mentre loro due si limitano a scambiarsi un sorriso diabolico.

Un rumore sordo alle nostre spalle mi fa sussultare. La voce di Sascia rimbomba nella caverna come una sentenza di morte.

«Avete paura di scendere in profondità?»

La sua figura si staglia contro la luce tremolante. Il suo sguardo è freddo, implacabile, un buco nero che risucchia ogni briciolo di umanità. Con calma inquietante, si spoglia del suo completo Armani, piegandolo con cura sopra una vecchia sedia di legno. Resta in piedi in mezzo alla stanza, coperto solo da un paio di boxer neri. Il suo corpo è una mappa di cicatrici, ogni segno una storia, ogni taglio una lezione. I tatuaggi si intrecciano alla pelle martoriata come simboli esoterici incisi nel tempo.

Cristo.

Sascia non ha bisogno di parlare per farci capire che lui è il vero predatore in questa stanza.

Artem e Rick iniziano a spogliarsi senza battere ciglio. Non esitano, non mostrano vergogna. Sono pronti. Li imito, sfilandomi la maglia e il resto degli indumenti mentre il freddo mi avvolge con un morso crudele. Il suolo di pietra sotto i piedi nudi è gelido, ruvido. La pelle si accappona, ma non lascerò trasparire il minimo disagio.

Non importa cosa ci aspetta là sotto, e non importa quanto sangue dovrà scorrere.

Sarò pronto.
Sascia ci fa cenno con il capo di seguirlo e noi gli andiamo dietro. La roccia ruvida mi colpisce i piedi, graffiandoli. Ogni passo è un rischio, il muschio umido rende il terreno scivoloso e l’equilibrio precario. L’odore stagnante di umidità si infila nelle narici, lasciando un retrogusto marcio in gola. Potrei rompermi l’osso del collo in questi tunnel senza nemmeno arrivare al punto cruciale: raccontare ad Artem la verità sul passato di sua sorella. Eppure, una piccola scintilla si riaccende dentro di me. Qualcosa di antico, crudele, familiare. La sento crescere, il calore è lieve ma costante. Voglio alimentarla e voglio che divampi fino a consumarmi.

Raggiungiamo gli ultimi gradini in basso e la scena davanti ai miei occhi mi inchioda sul posto. Le pareti di roccia sono disseminate di ossa, incastonate nella pietra come un macabro monito. L’aria è densa, quasi palpabile, intrisa di morte e rassegnazione. Tre gabbie dorate, immense, dominano il centro della caverna. Sembrano troni capovolti, prigioni progettate per ridurre qualsiasi uomo a una bestia.

«Entrate dentro. Ognuno di voi nella sua gabbia personale. Prendeteci confidenza, perché sarà la vostra casa per le prossime sei settimane. Dimenticatevi della luce del sole, dei vostri comfort e della vostra vita quotidiana. Qui tutto si capovolgerà» ci istruisce Sascia, la sua voce è ruvida come le rocce che ci circondano.

«Mi avevi promesso che avrei visto Bea!» sbotta Artem, la sua rabbia è un tuono che rimbomba tra le mura della caverna. Capisco il suo stato d’animo. Nemmeno io voglio restare troppo a lungo senza notizie di mia sorella.

«La vedrai alle mie condizioni. Ora entra dentro la gabbia prima che ti prenda a calci sulle gengive» sentenzia Sascia, la minaccia è un sibilo velenoso. Artem sbuffa, ma cede. Non ha scelta.

Faccio un paio di passi avanti e oltrepasso la soglia della mia gabbia. Le sbarre di ferro, ricoperte di vernice dorata, scintillano sotto la luce fioca delle torce. Appena metto piede all’interno, la porta si chiude con uno scatto metallico. Nessun lucchetto. Deve esserci un meccanismo elettronico per controllarle.

Sascia si gira e preme un pulsante su una parete. Un rumore metallico si diffonde nell’aria, un cigolio stridente che proviene dall’ingresso alle nostre spalle. Qualcosa si sta muovendo lungo le rotaie di un altro tunnel. Il suono si avvicina, si fa più forte, più minaccioso, poi un ruggito squarcia il silenzio.

Il carrello avanza nella caverna, trasportando un enorme recinto. Dentro c’è un leone. La sua criniera dorata brilla e il petto si gonfia a ogni respiro profondo. I suoi occhi gialli ci scrutano con un’intelligenza primordiale, come se stesse valutando il nostro sapore ancor prima di decidere chi sbranare per primo.

Cristo santo. Dove cazzo sono finito.

«Porca puttana, Sascia!» sbraita Artem, stringendo le mani attorno alle sbarre. «Vuoi darci in pasto ai leoni adesso?»

«Tuo fratello è un cazzo di psicopatico» sibilo, senza staccare gli occhi dalla bestia. Ma, al tempo stesso, non posso fare a meno di ammirarla. La sua imponenza è ipnotica. La bellezza e la brutalità fuse insieme in un’unica creatura perfetta, e noi, dentro queste gabbie, non siamo altro che prede.
«Vi presento Sergey. Il suo nome significa guardiano e lui sarà il vostro vicino di casa fino alla prova finale in cui lo affronterete.»

Sascia si muove con calma, avanti e indietro, la sua voce taglia l’aria ed è priva di qualsiasi esitazione. Poi allunga una mano verso il leone, lo accarezza con una confidenza disarmante. La bestia accetta il tocco senza sussultare, senza nemmeno mostrare un istinto di ribellione. Come se fosse un cane fedele, docile e assuefatto al suo padrone.

Mi si secca la bocca. La sua mano affonda nella criniera dorata, la modella con una delicatezza quasi surreale. Mi aspetto di vederlo perdere un braccio da un momento all’altro, ma non succede. Il leone resta immobile, lasciandosi dominare. È questa la vera paura: non la bestia in sé, ma l’uomo che l’ha domata.

Sascia si allunga verso un bidone di ferro arrugginito, infila un braccio all’interno e ne estrae un enorme pezzo di carne cruda, rosso e ancora sanguinante. Il liquido denso gli cola lungo il bicipite, ricoprendo la pelle chiara di un velo scarlatto. Poi si avvicina al leone e gli porge il pasto senza alcuna esitazione.

L’animale spalanca le fauci e in un solo morso divora la carne. Il suono delle mascelle che si chiudono riecheggia nelle caverne, un rumore umido e ossuto che mi scava nello stomaco. Stringo le mani attorno alle sbarre della mia gabbia, cercando di mantenere il controllo. Non riesco a deglutire, il fiato mi resta bloccato in gola.

Non posso fare a meno di guardarlo, di cercare di decifrare quest’uomo che riesce a dominare un predatore con la semplice presenza.

Porca puttana. Avrebbe potuto perdere un braccio in un istante, eppure è ancora tutto intero.

«Dovrei lottare contro un leone di quasi duecento chili?» chiedo, anche se in fondo conosco già la risposta.

«Lo affronterete insieme, tre contro uno. Potete farcela.»

Non uscirò mai vivo da queste catacombe.

«Dovrete imparare a fidarvi l’uno dell’altro. Se uno di voi non lo fa, verrete sbranati. Dunque, spegnete le vostre emozioni e trovate una strategia per vivere. Nel frattempo, man mano che passano i giorni, affronterete delle prove di sopravvivenza. Per adesso è tutto, buona permanenza.»

Sascia si volta e se ne va, senza aggiungere altro, lasciandoci in compagnia del leone rinchiuso nel recinto a pochi metri da noi. Restiamo immobili, intrappolati nelle nostre gabbie come animali da macello, mentre il ruggito basso e minaccioso della bestia rimbomba tra le rocce.

Dopo qualche ora, il carrello riprende a muoversi, trascinando via il leone nel buio di un altro tunnel. Solo allora riesco a respirare di nuovo.

Artem resta fisso con lo sguardo sul punto in cui la bestia è scomparsa, le mani strette attorno alle sbarre mentre borbotta parole rabbiose contro suo fratello. Lo capisco. Ritrovare Bea dopo cinque anni ed essere costretto a starle lontano, a non poter nemmeno vederla, deve essere insopportabile.

Io so cosa vuol dire perdere qualcuno. So cosa vuol dire fallire.

Il più delle volte ho odiato Artem per il suo modo di fare, per il fatto che mia sorella si stava avvicinando a lui. Una parte di me era felice di vederla finalmente vivere e lasciarsi andare. Ma era sempre stata il mio batuffolino, da quando quelle due piccole iridi nere si erano piantate nelle mie, supplicandomi di non abbandonarla mai.

Parlavamo in silenzio i primi giorni. Lei non diceva nulla, ma io capivo ogni singolo pensiero che le passava per la testa, anche quelli che cercava di tenere nascosti.

Poi, una notte, si è infilata nel mio letto e mi ha abbracciato forte. Non riusciva a piangere, ma era come se lo stesse facendo.

Quella notte mi ha raccontato tutto. Dell’omicidio dei suoi genitori. Del rapimento di sua sorella. Di ogni fottuto dettaglio che ricordava. E più parlava, più la rabbia mi bruciava dentro.

Mi ero promesso che nessuno le avrebbe più fatto del male, e invece ho fallito.

Ma non accadrà di nuovo, nemmeno con Alys.

Sto tornando, princesa.




Capitolo piccolino ma qui scopriamo il livello di psicopatia di Sascia.

Anche se un po' lo avevamo già intuito.

Quante di voi non vedono l'ora di conoscere lui?

Intanto godetevi Elyas che ci riserverà belle sorprese.

Baci baci.





𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕰𝖑𝖞𝖆𝖘 - 𝖛𝖔𝖑. 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora