XXVIII. Normalità

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Mi appigliavo alle piccole cose.
L'uscita con Jeongin, lavorare al bar di pomeriggio.
Piccole cose che mi facessero ancora sentire normale.
Piccole cose che mi dessero l'illusione che tutto fosse come prima, che nulla fosse cambiato.
Finché non arrivava la sera e non dovevo recarmi a piedi presso gli appartamenti di Maxime.

Le prime volte furono dure.
Mentalmente e fisicamente.
Volevo soltanto piangere e fuggire, eppure dovevo stare lì.
In quei letti che sembravano sempre troppo freddi ma troppo pieni, condividendo il mio corpo e i miei movimenti con dei perfetti sconosciuti.
E spesso, qualche lacrima riusciva a fuggire dai miei occhi, mentre nel buio e nell'ombra non poteva essere vista.

Non ci misi tanto a realizzare che la mia prima volta non era stata con qualcuno che amassi, di cui avessi fiducia o che semplicemente che mi piacesse.
Non fu divertente, né bello.

Fu un vero incubo.

Le volte successive furono quasi un disastro e le clienti pagarono, per questo, meno del dovuto.

E tutto quello mi sembra così paradossale: da quando avevo firmato il contratto mi lasciavo trasportare dalle mie emozioni e, in confronto alle prime vere volte quando lavoravo a domicilio, tutto quello sembrava più difficile da sopportare, per qualche motivo a me sconosciuto. E talvolta il pensiero di voler mollare tutto attraversava la mia mente.

Pedro mi rimproverò ma le ragazze non esitarono a rassicurarmi sul fatto che in quel mondo servivano solo due cose: esperienza ed abitudine.
Ma sarei davvero riuscito ad abituarmi a tutto quello?
A mani diverse che mi toccavano ogni volta? A voci diverse che mi parlavano mentre nella penombra tenevo gli occhi chiusi?

Se me l'avessero detto quando iniziai, probabilmente non ci avrei mai creduto.
Eppure accadde.
L'abitudine cominciò ad insinuarsi in quella parte della mia vita.

Inizialmente l'unico mio pensiero era sacrificarmi per Amy.
Poi, col tempo, fu come se le cure in ospedale e tutto il resto fossero entrate nella routine. Come se tutto quello non fosse collegato a ciò che facevo io.
Forse avevo iniziato ad avvertire tutto a quel modo perché non vedevo materialmente un guadagno, del denaro arrivare ed uscire dalle mie tasche.

E così tutto cominciò a cambiare.
Perché?
Perché per qualche motivo, nel passo successivo, quel lavoro iniziò ad essere divertente.

Non potevo più essere fiero di nulla nella mia vita.
Allora l'unica cosa che iniziò a darmi soddisfazioni furono i frutti del mio duro lavoro: una mancia profumata, gioielli, vestiti.

Perché d'altronde cos'altro mi dava quel lavoro? Nulla, se non vergogna.

Ma pian piano neanche quello fu abbastanza, così iniziarono ad esserlo l'appagamento delle clienti, i loro complimenti e le sigarette offertemi alla fine di una buona serata di lavoro, fumate tra le lenzuola.

E qualche volta ciò che era interessante era bere e divertirsi come lavoro.
Sì, perché alcune clienti avevano iniziato a richiedere la mia presenza affinché le accompagnassi ad alcune feste o in discoteca.
Fidanzato in affitto?
Chiamiamolo così.
Con tanto alcool gratis, cene per palati raffinati e party privati.

Avevo smesso di essere timido, ma alla fine quello era l'unico modo per andare avanti in quel mondo.

Le donne, per chissà quale ragione, adoravano il mio corpo così snello, esile, androgino.
Raro, introvabile, unico.
Ed era quello a darmi orgoglio.
L'essere desiderato perché ero unico, perché nessuno era come me e soprattutto non era facilmente ottenibile come me.

Nessuno mi aveva mai riservato quel trattamento.
La mia famiglia mi aveva gettato come un giocattolo vecchio e nella mia vita spesso ero stato vittima di scherno, razzismo e quant'altro.

Black petals of a Blue rose - MAXIDENTDove le storie prendono vita. Scoprilo ora