I. Impeto.

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Ricordo ancora le urla di quel giorno. Il dolore che sentivo in tutto il corpo. La guancia destra dolorante. L'occhio che bruciava. La sensazione del sangue caldo che dalla fronte colava giù per poi cadere a terra. Ogni tanto mi capita di sognare ancora quei momenti, di risvegliarmi in piena notte, completamente sudato e con le mani doloranti: che stupido... cercare di aggrapparmi a delle lenzuola. Che cosa davvero inutile.

Era notte ed ero ancora un bambino ingenuo.
Di anni allora ne avevo sedici, ma se ci ripenso è come se in realtà fosse successo così tanto tempo fa, che mi sembra quasi che fossi ancora un bambino.

Andavo alle superiori. Ero lo studente modello ed il figlio perfetto: mai una parola fuori posto, compostezza, buone maniere, diligenza. Una fonte di infinita solarità ed affetto, elargiti in abbondanza a chi mi stava intorno.

Un ragazzo d'oro, figlio di una famiglia perbene... o almeno è così che apparivo agli occhi degli adulti.

L'adolescenza. Una vera schifezza.
Se sei troppo gentile sei uno sfigato, se fai il duro invece ti disprezzano tutti. Come se non bastassero già i pensieri che avevo in testa a confondermi.

La notte prima del fattaccio ero stato ad una festa. Sì, una di quelle solite feste organizzate per sentirsi un po' grandi: si prova a bere per la prima volta, si prova a fumare per la prima volta... e magari anche a rimorchiare qualche bella ragazza.
Solo che a me, quella sera, delle ragazze non me ne fregava proprio nulla ed, in realtà, neanche del resto.
Ai miei occhi esisteva soltanto una persona, di cui ormai non ricordo più nemmeno il nome.
Era un mio compagno di classe, andavamo insieme agli allenamenti del club di taekwondo ogni pomeriggio. Era bello passare del tempo insieme, sembrava capirmi.
Quando stavo con lui tutta la confusione che avevo in testa spariva, ma non appena lo vedevo andarsene via dopo avermi accompagnato a casa... beh eccolo di nuovo lì quel maledetto turbine di pensieri.

Così quella sera, la sera di quella maledettissima festa, trovai il coraggio e lo baciai.
Non mi ero mai chiesto cosa fosse l'amore, non mi facevo molte domande. Agivo secondo quello che sentivo, senza rifletterci molto.
Fortunatamente quando ciò accadde la maggior parte dei miei compagni erano già completamente andati, chi per un motivo e chi per un altro, o erano troppo occupati a fare altro. Nessuno ci vide.

Andò nel panico: era spaventato di aver commesso chissà quale peccato mortale, sembrava non sapere cosa fare.
Gli dissi che era tutto a posto, non era successo niente. Doveva semplicemente fare finta di nulla e sarebbe rimasto tutto come prima.
Gli chiesi di non raccontare quello che era successo, nemmeno alla persona di cui si fidava di più. Le nostre famiglie erano molto religiose e non sapevo quale reazione avrebbero potuto avere se fossero venute a saperlo.
Acconsentì.

Il giorno dopo non andammo a scuola. Dovevamo incontrarci nel pomeriggio perché avevamo già pianificato di andare in sala giochi. Mi preparai, uscii di casa e mi recai al luogo stabilito, perfettamente in orario. Aspettai per ore, ma lui non arrivò.
Gli scrissi dei messaggi.
Nessuna risposta.
Provai a telefonare.
Irraggiungibile.
Nulla.
Decisi di non sprecare la giornata e di entrare lì da solo. Passai qualche ora piacevole: la calma prima della tempesta.

Quella sera tornai a casa non molto tardi, era già buio.
Sembrava una serata tranquilla... ma lo sarebbe stato solo per poco.

Entrai a casa.
"Hey, sono tornato!"
Nessuno rispose.
Superai il corridoio d'entrata, lasciando le scarpe sull'uscio, e mi avviai verso il salone.

Era insolitamente buio, la televisione accesa ad un volume non troppo alto. Trasmettevano una romcom di quelle vecchie.
Mio padre era seduto sul divano ai cui piedi c'erano diverse bottiglie di birra.

Mi resi conto che qualcuno singhiozzava in cucina.
No, non qualcuno: era mia madre.
Cercai di avviarmi verso l'altra stanza, quando mio padre si alzò dal divano rivolgendomi la parola:

"Sei tornato finalmente." disse con tono fermo e sprezzante.

"Che succede? Perché mamma sta piangendo?" chiesi preoccupato.

"Dove sei stato?" rispose ignorando la mia domanda.

"In sala giochi, con i miei compagni"

"I tuoi compagni chi?" chiese insistentemente.

Mentii dicendo di essere stato con il mio amico ed altri.

"Menti." rispose.

Il cuore cominciò a battere sempre più veloce, qualcosa iniziò a stringerlo in una morsa dentata.
Era paura, nella sua forma più pura.

"Cos'hai fatto ieri sera?" chiese girandosi e guardandomi negli occhi.

"Io- io non ho fatto nulla, non ho bevuto, non ho toccato nulla." affermai.

Rise. Era ubriaco fradicio.
"Come se ormai mi importasse..." decretò.

"Papà te lo giuro-"

"Non chiamarmi più così, tu non sei mio figlio. Sei un essere schifoso."

Mia madre urlò piangendo più intensamente.

"Perché fate così? Non capisco cosa stia succedendo..." dissi.

"Non capisci?"
Iniziò ad avvicinarsi pericolosamente. I miei piedi erano saldi a terra, non un muscolo del mio corpo sembrava volersi muovere.
"La madre del tuo amichetto ha telefonato oggi. Ha detto a tua madre che suo figlio ha avuto un attacco di panico a causa tua." iniziò ad alzare sempre più i toni.
"Quindi... continui a non sapere nulla o devo rinfrescarti la memoria?" disse afferrandomi per i capelli quando ormai eravamo faccia a faccia.

"Che schifo, hai idea della figura abbiamo fatto con quella donna? Hai idea del dispiacere che tu hai causato a tua madre? Hai idea di ciò che diranno della mia famiglia? Sei un essere disgustoso." sputò ogni parola quasi fosse veleno.

"Ti abbiamo fatto crescere libero, non ti abbiamo mai punito, ti abbiamo educato, ti abbiamo fatto studiare, ti abbiamo dato tutto quello che volevi. E TU, tu. Ci ripaghi così." ognuna di queste parole risuonò in tutta la casa sempre di più. E sempre più forte mi trafisse.

"SPARISCI" urlò infine scaraventandomi al pavimento.

"Papà ti prego, fammi spiegare" dissi sul punto di lacrime.

"Cosa vorresti spiegare? Dove sei stato oggi pomeriggio eh? Il tuo amichetto è finito in ospedale per un attacco di panico quindi non potevi essere con lui. Dov'eri?"

La bottiglia che aveva nell'altra mano venne lanciata e si infranse contro il muro alle mie spalle.

"Papà ero in sala giochi, ho anche il biglie-"

"Dimmi dov'eri ho detto! Brutto frocio di merda, non raccontarmi cazzate" ricevetti il primo ceffone.
"...ti uccido" sussurrò.

"Papà -" dissi indietreggiando.

"SPARISCI O TI UCCIDO, LURIDO FROCIO." urlò.

Mia madre irruppe nella stanza correndo. Cercò di afferrare le mani di mio padre, piangendo.
"Faremo qualcosa, lo porteremo da un dottore bravo ma ti prego, lascialo vivere. Lascia vivere mio figlio!" urlò.

Lui la scaraventò a terra, senza curarsi di lei, quasi fosse una bambola.
Mi tirò un calcio e finii contro il muro ai cui piedi c'erano solo schegge di vetro.

"Quindi... hai baciato un maschio, non è così? E dopo cosa avresti fatto, mh? Voglio sentirtelo dire." disse in tono di sfida.

Ciò che seguì furono una serie di percosse infinita, una per ogni insulto. Faceva tutto così male... così male... che forse non sentivo più il dolore...

"Perché stai fermo immobile se tutto questo non è vero? Stai fermo come un coglione perché sai cos'hai combinato. Con chi sei stato oggi pomeriggio eh?!" urlò continuando a prendermi a calci.

I vicini dovettero sentire le urla e gli insoliti rumori assordanti, perché decisero di suonare il campanello, preoccupati.
Mi salvarono la vita, senza nemmeno volerlo.

Non so dove, trovai la forza e la lucidità: fino ad un secondo prima non riuscivo a muovermi per il dolore ed era tutto annebbiato.

Scattai in cucina, non guardai negli occhi nemmeno mia madre.
Scalzo, uscii dalla porta sul retro e cominciai a correre.

Black petals of a Blue rose - MAXIDENTDove le storie prendono vita. Scoprilo ora