Capitolo 32

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Il circuito era pieno di gente. Famiglie complete, nelle quali genitori cercavano di tenere d'occhio i figli, ragazzi che indossavano le magliette delle varie scuderie per fare il tifo e ragazze vestite come se ci sarebbe stata una sfilata d'alta moda da un momento all'altro. Appena varcammo l'ingresso del circuito tantissime persone si girarono a guardarci, o meglio a guardare Arthur, il quale non sembrava per niente intimorito dai loro sguardi, anzi ne sembrava soddisfatto. Una marea di gente incominciò ad avvicinarsi a lui, quasi travolgendomi. Arthur mi prese immediatamente la mano e me la strinse forte forte. «Tranquilla, non ti lascio». Da come lo disse, sembrò una promessa a vita.

Il gruppo di persone che si era formato intorno a noi sembrava non voler andarsene senza non aver ottenuto o un autografo o una foto con il pilota che continuava a tener stretta la mia mano. La stretta era ben salda, sarebbe servita molta forza a staccare le nostre mani. Vedevo nello sguardo di Arthur la voglia di restare lì a chiacchierare con i suoi fan, ma gli leggevo anche negli occhi la preoccupazione che avrebbero potuto farmi del male a costo di ottenere qualcosa dal loro idolo.
Mi avvicinai al suo orecchio per cercare di parlargli. «Tranquillo. Io vado verso il tuo garage, mi ricordo dov'è...» dissi prima di lasciare la sua mano e cercare di uscire da quel gruppo di gente che aumentava sempre di più. Vedendo alcuni giornalisti camminare verso di me e pensando che volessero farmi domande sul mio amico o sul nostro rapporto, aumentai il passo verso il garage e notai subito fuori di lì Stephen e Victoria che si sorridevano come due ragazzini follemente innamorati. Si vedeva che erano persi l'uno per l'altra, che provavano davvero un sentimento molto forte, simile a quello che fin da piccola vidi negli occhi dei miei genitori quando erano insieme.
«Madison, che bello vederti!». Victoria si girò verso di me e lasciò andare suo marito per venirmi ad abbracciare.
«Scusate se vi ho interrotto...»
«Figurati, io vado dentro. Ci vediamo dopo» disse Stephen dando un bacio a stampo alla moglie e salutando me con un gesto della mano. Sentendo provenire un rumore da fuori, mi girai verso l'ingresso del garage per vedere.

«Scusate, pensano come cavalli queste cose!». Max stava cercando di trasportare alcuni pezzi delle moto e ne lasciò cadere alcuni a terra. Già a vederli quei pezzi, che erano più grandi di lui, pesavano una tonnellata. Un meccanico un po' più muscoloso di lui arrivò in suo soccorso e gli diede una mano.
«Allora, è la tua prima gara di motocross?». Victoria riportò la mia attenzione su di lei. Era davvero una bella donna. Indossava un completo rosso che metteva in evidenza tutte le sue curve. Sotto la giacca aveva una camicetta bianca così sottile da poter intravedere le cuciture del reggiseno. Era un vestito allo stesso tempo elegante e professionale, ma anche sexy e seducente.
«Non proprio. Ne ho viste alcune dal vivo e altre le ho seguite, ma principalmente per stare o vedere in televisione i miei genitori». Quando ero piccola odiavo tutto ciò che c'entrava con i motori. Mi ricordo la prima gara di Formula 1 a Silverstone con i miei genitori. Avevo circa sei anni ed ero tra le poche bambine che erano presenti. Per tutto il tempo avevo tenuto le mani presse contro le orecchie, forte forte, perché mi infastidita il rumore dei potenti motori. In quel momento era tutta una situazione diversa. Col passare degli anni avevo scoperto quanto potesse essere bello il mondo dei motori, quanti segreti nascondesse e me ne innamorai.

«Son giornalisti sportivi, vero? Stephen me lo accennato durante la cena di settima scorsa» mi disse.

«Si, esatto. Ma adesso son a Liverpool per una partita». Non potei far a meno di dirlo con tristezza. Certe volte mi mancavano davvero molto.
«Vic, puoi venire a darmi una mano?» chiese Stephen uscendo da una saletta e intendo ad allacciare le protezioni.
Dopo essersi scusata, Victoria si alzò e andò verso il marito mentre io cercai di capire dove fosse finito Arthur.
Mi avvicinai alle vetrate che affacciavano sull'ingresso del circuito e lo vidi nello stesso punto nel quale lo avevo lasciato, circondato da mille ragazze e giornalisti. Una parte di me mi diceva che era normale che tutte quelle ragazze cercassero di ottenere una foto con lui o un suo autografo ma ciò non implicava che dovessero cercare di toccarlo dappertutto.
«È sempre stato il più amato... ». Colsi nel tono di Max un velo di rassegnazione, come se con quella frase avesse cercato di essere divertente e ironico, ma anche veritiero e turbato.
«Ci saranno migliaia di ragazze che faranno la fila per te. Metto una mano sul fuoco». Max era un bel ragazzo, nessuno lo poteva negare. I capelli neri sempre pettinati perfettamente e gli occhi marrone chiaro che trasmettevano un senso di serenità. Ogni volta che sorrideva due fossette piccole e quasi impercettibili gli apparivano agli angoli della bocca, rendendo il suo sorriso, oltre che sincero, molto seducente.
«Non quante Mister Perfezione... » disse indicando verso il gruppetto che circondava Arthur che si stava sciogliendo rivelando che al centro non c'era più il mio amico. Dove era andato?
«Noi lo chiamiamo effetto Raynard...» dissi ridendo. Effetto Raynard: stato confusionario che colpisce ogni ragazza il cui sguardo capita su Arthur Raynard. Mi ricordo che fu Jack il primo a definirlo così dopo che una ragazza gli diede buca solo per aspettare che Arth uscisse dall'aula di biologia.
«Mi piace. Lo userò spesso, mi sa. Torno a mettere a posto quei pezzi. Ci vediamo dopo». Max si allontanò verso alcuni meccanici subito dopo avermi dato un bacio sulla guancia. Tornai con lo sguardo verso la vecchia posizione di Arthur e decisi di andare a cercarlo.
Girai un po' cercando il mio amico e respirai l'aria dello sport. Era quello il mio futuro. Volevo tanto lavorare in una casa automobilistica e sentirmi parte di una grande famiglia come lo potevano essere la McLaren o la Bentley, ma un ostacolo non di poco conto mi impediva di immaginare: il pensiero dei miei genitori. Fare la giornalista non faceva per me. Avevo provato a cimentarmi nel giornale scolastico quando frequentavo la prima superiore, ma anche il professor Riven, il consulente del giornalino, aveva detto che ero proprio negata. Adoravo scrivere, non lo nego. Mi aveva sempre aiutata, ma non vedevo un futuro nella scrittura se non più uno scopo soggettivo ed edonistico. Però volevo rendergli orgogliosi, ma anche se questo desiderio era davvero forte in me, non avrei mai messo da parte i miei sogni.
Arthur non c'era, era come sparito. Cercai al bar, sulle gradinate, tra i giornalisti. Scendendo dalle tribune notai un piccolo vicolo che sembrava portare al garage della Bane Motors. Più mi incamminavo più sentivo delle voci e tra queste la sua. Il vicolo non portava al garage ma a un parcheggio vuoto e abbastanza isolato da circuito. Rimasi nascosta, in modo da non farmi vedere. I miei occhi cercarono subito Arthur che si trovava circondato da tre ragazzi il doppio di lui. Avranno avuto più anni di lui, forse la stessa età di mio fratello guardando la loro statura. Non sembravano cattivi, ma il loro tono di voce intimidatorio diceva tutto il contrario.
«Voglio i miei soldi!» disse uno di loro puntando il dito verso Arthur. Era alto e magro con mille tatuaggi sul collo e sulle braccia.
«Non ti devo niente!». Arthur era sicuro di sé, per nulla spaventato dal trio di fronte a lui.
«Bella battuta, cretino. I soldi o la tua carriera, decidi tu». Un altro ragazzo un po' più basso e biondo - da quel che riuscii a vedere poiché indossava un capellino da baseball -, si avvicinò a lui ancora di più fino a che i due non si trovarono faccia a faccia. Se non conoscessi Arthur avrei detto che da un momento all'altro sarebbe scoppiata una rissa. Ma lui non era il tipo. Vero?
«Dovete starne fuori» rispose Arthur. I suoi occhi erano come infuocati dalla rabbia e le sue mani era strette in pugni così forti da far risaltare le vene sulle sue braccia.
«Altrimenti?». Il ragazzo biondo di fronte a lui si avvicinò di più mentre gli altri due si posizionarono al suo fianco come a far fronte comune contro Arthur. Raynard non rispose. Rimase a guardarli come se stesse per spaccare la faccia a ciascuno di loro. Mi sbagliavo. Arthur era il tipo da rissa.
«È stata colpa tua» disse l'altro ragazzo che non aveva ancora parlato. Lo sguardo adirato di Arthur si spense e divenne malinconico spostandosi sul ragazzo che aveva appena parlato. Anche gli altri due si allontanarono e si girarono verso di lui.
«Milo, io...». Arthur cercò di parlare ma fu interrotto dal ragazzo, Milo. Mi sembrò di averlo già sentito questo nome, ma probabilmente era solo una sensazione.
«Non si meritava quella fine ed è tutta colpa tua, Raynard!». Milo era furioso. La calma e la pietà nel occhi di Arthur scomparve subito e ritornò sull'attenti, come se avesse avuto un momento di debolezza.
«Niente più avvisi, Raynard. Dacci i soldi e potrai continuare a spassartela fuori da una prigione». Prigione? Non capivo più niente. Perché quei ragazzi volevano soldi da lui e perché se non glieli avessi dati ci sarebbero state ripercussioni sulla sua carriera?
Centrava tutto con il passato difficile a cui Brandon mi aveva accennato, mi risposi. Ma la prigione, dio mio. Cosa avevi combinato, Arthur Raynard?
Il trio si allontanò verso un fuoristrada nero opaco, l'unico parcheggiato in quel parcheggio. Capii che, anche se avrei voluto correre tra le braccia di Arthur per fargli capire che di qualunque cosa si trattasse sarei stata dalla sua parte, era meglio che non mi avesse trovata lì. Tornai indietro ripercorrendo il piccolo vicolo nascosto e andai verso il garage. Vidi Max uscire con la moto, con il casco in mano, accompagnato da alcuni meccanici e rividi in lui lo stesso sguardo di Arthur ogni volta che lo vedevo salire su una moto.
«Ehi, ti cercavo. Scusa per prima, odio quando i fan diventano troppo invadenti». Mi girai verso di lui e lo guardai negli occhi. Era come se tutto quello che era successo qualche minuto prima non fosse mai accaduto. Non traspirava emozione.
«Sono venuta a cercarti. Dov'eri?». "Sii sincero", diceva, anzi sperava, la mia testa. Se davvero teneva a me avrebbe almeno dovuto dirmi qualcosa. Anche solo piccoli pezzetti di una storia che sembrava tutt'altro che semplice.
«Ehm, dei giornalisti mi hanno fatto un po' di domande più appartati senza i fan... ». Mentiva così bene che se non avessi visto con i miei occhi la scena di poco prima gli avrei creduto. Non mi guardava neanche negli occhi e io rimasi delusa. Lui lo notò e mentre stava per dirmi qualcosa una ragazza bionda corse verso di noi, o meglio verso Arthur, e gli saltò tra le braccia.
«Oddio, ti ho cercato dappertutto e finalmente ti ho trovato!». La ragazza si staccò da lui e rivolse lo sguardo verso di me. Era bellissima, perfetta in ogni curva del suo corpo. Indossava un paio di paio di stivaletti con tacco alto, un paio di jeans neri e un top verde menta che lasciava scoperte le spalle. Gli occhi azzurri erano il perfetto abbinamento alla sua chioma bionda e il suo trucco era impeccabile.
«Liv, io... non credevo venissi!». Arthur era entusiasta di vederla. Lei gli sorrise e dopo pochi minuti si girò verso di me.
«Sono Olivia, ma chiamami Liv».
«Madison...». E non chiamarmi Maddie. I due tornarono a guardarsi e forse la ragazza di cui mi aveva parlato Arthur quando mi venne a prendere alla stazione era lei. La perfetta Olivia.

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