Persa a osservare il soffitto bianco della camera, con la musica nelle cuffiette, continuavo a vivere scene in replay, come se quel girono non fosse mai terminato. Come se fossi ancora in quell'auto, pronta a scappare verso la casa di nonna, pronta a piangere tutte le lacrime che potevo, pronta a fare di tutto per allontanarmi da lui. E quella macchina arrivasse all'improvviso e cambiasse ogni mio obiettivo. Non ricordo molto di quel momento. Le luci del camion mi accecarono e chiusi gli occhi. Sentii il rumore delle ruote che cercavano di frenare sull'asfalto bagnato e un dolore lancinante a testa. Ricordo delle braccia che mi portarono via dalla macchina devastata dell'incidente, o forse era solo frutto dello stato confusionario. Quello che ricordo dopo è essermi svegliata nella camera d'ospedale con i miei genitori, Charles e nonna May. Ricordo il momento il cui i loro sorrisi si sono illuminati appena hanno visto che aprivo gli occhi. Ricordo gli abbracci premurosi subito dopo. E ricordo la mano di papà che vidi toccarmi la gamba, ma non la sentii. Ricordo la paura di quel momento, di aver perso sensibilità alle gambe. Ricordo che per mesi nulla è stato più come prima.
«Tesoro...». Nonna May mi tolse una cuffietta e dal suo sguardo capii che non era la prima volta che mi stava chiamando. Mi abbracciò, forse per l'ennesima volta da quel giorno.
Ero nella mia camera, a casa, distesa sul letto perché non potevo camminare. Con l'incidente avevo perso l'uso delle gambe. A giorni di distanza i medici mi dissero che la mia condizione era temporanea ma non avrei mai recuperato a pieno tutte le capacità motorie se non con molta, molto, fisioterapia. Avrei fatto persino fatica a camminare. Inizia fin da subito la fisioterapia, grazie soprattutto all'aiuto del padre di Eve. Facevo passi avanti ogni volta, o almeno, era quello che diceva a lui. Ogni giorno io mi sentivo sempre più morire, ogni giorno era un altro giorno in cui cercavo di ritornare alla normalità, capendo però che non sapevo neanche più quale fosse la mia normalità. A ogni lezione mi accompagnava nonna. Mamma e papà avevano preso i primi due mesi per aiutarmi e Charles tornava a Londra raramente. Era ironico come solo un'incidente ci avesse fatto stare tutti insieme. Ma quei due mesi passarono presto. I miei genitori partirono per Madrid, Charles tornò a Londra e nonna May e Eve rimasero al mio fianco. All'inizio, per quanto traumatico che fosse, avevo speranza. Speranza che un giorno potessi tornare alla vita normale.
Ma il tempo ebbe la meglio.
E in poco tempo era già aprile. Cinque mesi.
Erano passati cinque mesi ed ero ancora in quello stato. Ogni volta che mi alzavo dal letto capivo subito che le mie gambe non erano in grado di reggere tutto il mio peso. Riuscivo a malapena raggiungere il pianoforte al centro della camera per distrarmi. La sedia a rotelle che mi aveva accompagnato per i primi tre mesi era posizionata difianco alla porta d'ingresso a ricordarmi cosa avevo perso. Le stampelle, invece, erano accanto al letto. Il padre di Eve insisteva molto con utilizzarle durante la giornata anche solo per girare per casa. L'avevo fatto, le prime volte. Ma l'imbarazzo di dover chiedere aiuto a Isla per riportarmi vicino alla sedia era devastante. Non ero più io. Non potevo dipendere più da me stessa. Uscivo di casa solo per la fisioterapia, studiai a casa e per il resto della giornata stavo sdraiata sul letto a ascoltare musica e leggere un libro. Ogni tanto passavo i pomeriggi con Eve che mi raccontava di come stava proseguendo la sua storia con Jack, di quanto fosse stata intensa la loro prima volta a Capodanno e di quanto fosse felice. Per quanto cercasse di contenere le emozioni sapevo che la mia depressione non poteva contaminare anche lei. Max ed Eddy mi scrivevano tutti i giorni e mi mandavano fiori ogni due settimane. Liv mi mandava foto ogni giorno di Tommy che giocava. Victoria e Stephen mi mandarono una scatola di cioccolatini. E Arthur, niente. Nemmeno un messaggio, una lettera, nulla. E per quanto potessi associare il dolore che provavo in quel momento per aver perso l'uso delle gambe, non era nulla in confronto al mio cuore spezzato.
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Quello che non ti ho mai detto
ChickLit"Maybe you weren't the one for me, But deep down I wanted you to be". Madison Hill è cresciuta a Stevenage, una cittadina dell'Inghilterra non molto distante da Londra. Ha appena terminato gli studi di ingegneria meccanica ad una delle migliori un...