22. Anime affini

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Non dimentichiamo che le piccole emozioni

sono i grandi capitani della nostra vita e

che dobbiamo obbedire a loro senza saperlo.

Vincent Van Gogh

Jessica

Novembre 2019

Più il tempo passa e più mi rendo conto che James è un enigma troppo difficile da risolvere. Ho come la sensazione che non sono così importante da riuscire ad avere un posto nel suo cuore. Così, dopo che mi ha scacciata via dallo studio, non l'ho più nè chiamato e nè cercato. Ho atteso del tempo sperando di ricevere un suo messaggio ma non è mai arrivato. Da lì ho capito che mi sto soltanto illudendo. 

Questa mattina devo andare in ospedale a fare la tac e alcuni prelievi del sangue. Ho un pò di ansia, non perchè sto andando al Jefferson, piuttosto non riesco a essere fiduciosa sul mio futuro. Per molti anni mi sono sentita dire di avere dei problemi irrisolvibili, una malattia che potrebbe ridurre anche la mia capacità di vivere una quotidianità normale. 

La porta della mia camera si apre e della luce mi colpisce il volto. Sbuffando mi copro con le coperte.

‹‹Jessica sei ancora a letto?›› dice mia madre. 

‹‹Mmm...›› mormoro.

Entra e solleva le serrande. ‹‹Alzati, ti do dieci minuti per vestirti.››

Afferra le coperte da sotto i miei piedi e le toglie. ‹‹Mammaaa, ora mi alzo. Esci.››

Mia madre è sempre puntigliosa quando si tratta di essere puntuali. Esce della camera borbottando, sbuffo e, dopo cinque minuti, scendo dal letto. Vado in bagno e mi lavo la faccia con dell'acqua fresca. Mi guardo allo specchio e mi accorgo che delle enormi borse circondano i miei occhi. 

Non riesco a dormire bene ultimemente, ci sono notti che le passo in bianco. Cerco di non farlo capire ai miei genitori ma prima o poi non potrò più nasconderlo. Torno in camera e indosso un jeans blu, una maglia a mezze maniche nera con una felpa dello stesso colore. Scendo in soggiorno, trovo mia madre con in mano una cartella rossa e tamburella con l'indice sul suo polso.

'Ma che palle, ci ho messo poco.'

Roteo gli occhi senza dire nulla, non ho voglia di litigare di prima mattina. Aspettiamo che mio padre scenda dalle scale, lui è sempre affascinante nonostante gli anni che non smettono di scorrere. Oggi ha messo una camicia blu e un pantalone di jeans. Quando si accorge di noi ci da il buongiorno e andiamo in macchina. 

Dopo aver percorso il tragitto che conosco a memoria, arriviamo davanti all'entrata del Jefferson. Papà cerca parcheggio mentre io e mia madre raggiungiamo la segreteria principale al piano terra, ci indica la strada da seguire. Dobbiamo andare al laboratorio delle analisi del piano posto al livello meno uno. Attendiamo l'arrivo di mio padre ma sembra essere in ritardo. Mia madre osserva l'orologio sul polso e, dato che abbiamo un appuntamento, decidiamo di avviarci. Scendiamo con l'ascensore e, non appena giungiamo, le porte si aprono. 

Usciamo e, con la coda dell'occhio, noto che in fondo al corridoio si trova James che parla con un'infermiera, il loro modo di conversare mi rende nervosa. Percepisco una fitta sullo stomaco, non riesco a capire perchè reagisco così. Cerco di ignorarlo, con mia madre decidiamo di attendere altri cinque minuti per aspettare mio padre. Restare lì, però, mi fa sentire a disagio. Non voglio che lui si accorga della mia presenza, non riesco a sopportare l'idea di verderlo sereno mentre io sto male da tanti giorni per colpa sua. 

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