Capitolo 20: Nathan

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Ci ritrovammo di fronte un corridoio vuoto, buio e serrato dalla segnaletica, ma lei continuò a camminare avanti, senza fermarsi. Sul pavimento era depositato uno strato di polvere visibile anche a occhio nudo, ovunque c'erano ragnatele, e segnali di allerta. Dove mi stava portando? Ad un certo punto si fermò e spinse pesantemente una porta in metallo, poi entrammo. Il suo sguardo atterrito girava tra le varie apparecchiature scientifiche poste in ogni angolo della stanza. I muri erano tutti anneriti, e lo si vedeva anche con le luci spente. Analizzai l'ambiente e capii immediatamente che il punto, in cui ero, ero lo stesso del sogno, l'ombra mi aveva colpita lì. Non ebbi tempo di chiedere spiegazioni, che la professoressa sempre più rassegnata iniziò a parlare.

«Anni fa, quando avevo ventisette anni ed ero ancora soltanto un agente, conobbi uno scienziato che lavorava qui. Questa all'epoca era l'ala della sperimentazione. Quell'uomo era stato guardiano, come te, ma finito il suo mandato aveva deciso di rimanere qui. Nell'estate del 2006 avevamo deciso di presentare un progetto al Consiglio: volevamo rendere accessibile a tutti gli agenti i poteri di un elemento. La nostra idea fu, però, bocciata, tuttavia lui non si scoraggiò. All'inizio lo seguii anch'io, finché non capii che l'idea del potere gli aveva dato alla testa. In una litigata ci urlammo a vicenda. Lui mi disse che lo stavo tradendo, io che non lo riconoscevo più, che non poteva, perché i Padri non lo appoggiavano, poi me ne andai, cosa stupida. Quella stessa sera lui si iniettò il siero, cosa ancora più stupida della mia. Avrei dovuto denunciarlo, fermarlo, ma ero innamorata e non pensavo che avrebbe fatto tutto questo. Pochi giorni dopo trovarono la sorella minore di 10 anni e la madre senza vita in casa sua. Capimmo che era pericoloso, ma il direttore dell'epoca nascose quanto successo, chiuse le sperimentazioni e fece firmare a tutti un patto di riservatezza. Non se ne parlò più, fino ad ora. Si chiamava Nathan, ma ora è conosciuto come Obscurity.» alzai lo sguardo e vidi il suo volto ricolmo di lacrime. 

Per amore, aveva fatto tutto per quel sentimento, aveva rischiato la sua vita, aveva causato morti. Ancora peggio, però, era stato il direttore. Sotterrare il problema non lo aveva risolto, gli aveva solo permesso di riemergere più forte, e dopo anni ero costretta ad affrontarlo io. Se non avessi saputo dove cercare qualcuno mi avrebbe mai informata di tutto ciò? Tutti avevano contribuito alla morte di Vì. E questo mi addolorava. L'ultima persona di cui mi fidavo e a cui importava di me mi aveva colpita causando l'ennesima ferita. La testa mi girava e non capivo più nulla, i miei occhi erano impenetrabili e delusi. Quel briciolo di sentimento che mi era rimasto era svanito definitivamente. Ora, capisco, però che avrei dovuto provare un po' di compassione, perché in fondo era stata la fiducia nata in un momento di debolezza a farla agire così, e la morte di Vì non era stata colpa sua. Ma più ci pensavo più mi disperavo e mi veniva da piangere. Volevo urlare a squarcia gola, cadere a terra, esprimere i miei sentimenti tutti d'un colpo, e magari sarei anche riuscita ad alleggerirmi l'animo. 

Eppure non potevo. 

Il mio viso era ormai privo di ogni emozione, neutro, immune ai cambiamenti del mio animo. Ero divenuta una statua in ferro, bronzo o marmo, senza più la capacità umana per eccellenza: l'empatia verso gli altri, ma soprattutto verso me stessa.

«I Fondatori lo sanno?» chiesi con voce fredda.

«Non lo so, non lo sa nessuno.»

Mi allontanai. Che domanda stupida, certo che lo sapevano, ma l'ordine di celare quanto successo non era di certo venuto da loro, perché avrebbero cercato di risolvere il problema. Tuttavia non ne avevo le prove, e tutte le informazioni che possedevo mi smentivano. Ripercorsi i corridoi lunghi e grigi, tornando ad analizzare la conversazione, la stanza, il sogno e il combattimento di due sere prima. Iniziavo ad associare a ogni domanda una risposta, anche se abbozzata. Tuttavia parevano moltiplicarsi, da un responso nascevano altri quesiti. Dovevo riordinare i pensieri.

Lungo il mio cammino incontrai Lorenzo. Gli occhi erano assonnati, i capelli stropicciati e i vestiti spiegazzati. Avevo l'impressione che si fosse alzato perché, ancora una volta, non volva farsi i fatti suoi. Gli passai davanti senza degnarlo di uno sguardo, ma guardando il pavimento, sperando che mi rendesse più facile ignorarlo. Lui mi passò di fianco senza rivolgersi a me. Sapevo che era a causa mia, e mi sentivo in colpa, ma nonostante cercassi di respingere quel sentimento non riuscivo: teneva lui le redini del mio carro. Perdipiù, in fondo, mi mancavano le sue attenzioni, la sua dolcezza, il suo coraggio, la fierezza con cui aveva detto le ultime parole che ci eravamo scambiati. Quelle mi avevano colpita, mi avevano irrimediabilmente portato a riflettere, e, anche se non volevo ammetterlo, sapevo che in fondo lui aveva ragione. Nonostante tutti questi pensieri che si soprapponevano a quelli di Obscurity non ebbi la volontà per rivolgermi a Lorenzo. 

Andai avanti, questa volta, per ironia della sorte, io a testa bassa. Lui procedette fissando l'orizzonte. Mentre voltavo l'angolo rallentai e lo osservai con la coda dell'occhio. Non si era fermato, e neanche io. Andavamo entrambi avanti, senza incontrarci, come due rette parallele. Eravamo entrambi troppo fieri per fare la prima mossa, anche se sapevo che toccava a me, perché mi ero comportata da egoista.

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