Capitolo 16: Presente

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I giorni procedevano lenti e incontrastato il tempo scorreva. Ogni secondo cambiavo, mutavo e moriva una parte di me, perciò passavo le mattinate in palestra ad allenarmi e a combattere. Le mie vittorie contro i Guardiani divenivano sempre più veloci e indolore. Era il solo modo che avevo di sfogarmi e ritornare per un attimo a volare: non sapevo più come si faceva e non me ne rendevo neanche conto. Le mie ali erano state strappate e bruciate, la mia fantasia non viaggiava più, le lacrime apparivano un oceano, ogni giorno sembrava eterno e uguale: vivevo come in un film in bianco e nero. La fine era sbocciata nella vita, nella beatitudine, nella felicità, mentre l'autodistruzione era stata innescata silenziosa, breve, dolorosa.

I sogni sono la dimostrazione di ciò che si prova e i miei non erano altro che incubi in cui rivivevo notte dopo notte da sola, nel buio del mio subconscio, i miei sensi di colpa. Dal mio sguardo si poteva percepire il tormento interiore che mi affliggeva con tutte le sue ferite aperte. Bastava poco per farmi esplodere e si era visto con Lorenzo. Da quell'alba il ragazzo mi ignorava, e quando i nostri sguardi si incrociavano finivamo per fissarci con odio e disprezzo, o perlomeno io. Lui tendeva ad osservarmi come chi è rimasto deluso dal proprio regalo di Natale, con occhi da bambino che iniziavano a sminuire le mie scelte e la fiducia che aveva in me. La voce di Lorenzo aveva iniziato a rivolgersi a tutti fredda, senza animo o speranza, ormai rassegnata. Il destino del mondo era nelle nostre mani ma non avevamo dato prova di essere in grado di gestirlo e proteggerlo. 

Quella mattina mi ero alzata prima del solito e mi ero recata in cucina per prendere una o due tazze di caffè. Infatti, era l'unica cosa che riusciva a tenermi in piedi dopo quelle nottate insonni che scavavano sempre di più il mio volto. Ancora profondamente assopita e rattristata dall'ennesimo incubo mi trascinai verso il bancone. Presi lentamente la caffettiera elettrica e una tazza e con sguardo perso nel vuoto iniziai a versare la bevanda. La tazza iniziò a sgorgare, perché io, assorta nei miei pensieri, mi ero dimenticata di cosa stavo facendo. Il caffè gocciolava dalla tazza, scivolando, ancora tiepido, sulle mie mani, e cadeva a terra formando una pozza informe. D'improvviso, senza che fossi ancora in grado di percepire con i sensi, una figura scura apparve alle mie spalle e velocemente mi prese. Cercai di dimenarmi, ma invano. Le sue mani tenevano strette le mie braccia attaccate alla schiena, e non vedevo il volto dell'aggressore. Non riuscivo a pensare lucidamente e neanche a percepire l'ambiente. Ero solo stanca di vivere quella realtà crudele in mezzo a quelle persone insolenti, di non sapere, di essere esclusa. Tutti sembravano un gruppo, ed io non ne facevo parte. Tutto ciò mi doleva, perché in fondo io partecipavo attivamente in quel mondo, anche se da protagonista ero diventata sfondo. Per un attimo passò tra i miei pensieri la speranza che quell'aggressione avrebbe potuto salvarmi o magari svegliarmi. Tuttavia fu solo un istante, poi i miei istinti presero il sopravvento. Cercai di ribaltare la figura in avanti, poi di spingerla verso il muro, ma la presa era salda e i piedi erano ancorati a terra come radici. Alla fine mi sbatté violentemente a terra e svenni.

Mi risvegliai in una stanza buia, appesa a testa in giù a circa due metri di altezza dal suolo. Appena ripresa conoscenza iniziai a urlare, tuttavia nessuno rispose. 

Tra me e la trave c'era un doppio cappio di corde possenti. L'ambiente era buio e senza finestre, erano quindi da escludere magazzini, abitazioni e gran parte di garage e seminterrati. Annusai con respiri profondi l'aria e percepii vari aromi animali e vegetali. Successivamente osservai attentamente la stanza attorno a me. Non vedevo nulla, solo una candela accesa e quasi consumata a qualche metro. Era poggiata sul pavimento, in un angolo di un mobile, simile a una libreria. Rammentai le serate passate in casa a luci spente ad osservare la luna insieme a Vento. Parlavamo di tutto, ci raccontavamo storie: era bello, e per un istante mi sembrò di essere tornata indietro a pochi mesi prima. 

Dalla fiamma, che si muoveva nella corrente d'aria, uno spiraglio di luce si ribaltava alle mie spalle, ed io lo seguii con lo sguardo. Intravedevo con la coda dell'occhio una botte. Intorno a me sentivo solo rumori di campanacci lontani, forse animali lasciati al pascolo. L'ambiente mi era familiare o quasi. Mi ricordava la casa in campagna in cui vivevo con mia madre.  Eravamo isolate dal mondo, in mezzo alla natura. I suoni e i profumi lì erano limpidi, c'era tranquillità e bellezza ovunque andassi. Tuttavia io mi trovavo in una cantina di vino artigianale, probabilmente per consumo privato e in quel luogo i profumi erano forti e acidi mentre quella situazione non era spensierata. Poi ripresi a pensare lucidamente sul da farsi. Come potevo liberarmi? 

Dovevo muovermi, chissà da quanto tempo ero appesa come un salame. Percepivo i miei arti addormentati e formicolanti, e sapevo che ben presto sarebbe giunta la nausea. Non ero lì da molto, ma da almeno un quarto d'ora, pertanto prima di subire danni permanenti, avevo ancora circa dieci minuti. 

Pensai in fretta. 

Per prima cosa tastai le tasche laterali dei miei pantaloni ma non sentii il pugnale. Fui sorpresa da diverse emozioni: delusione, rabbia, tristezza ma anche accettazione. Quel turbinio di sentimenti mi travolse e per un attimo rimasi immobile. Allora riposai gli occhi sulle corde e mi venne un'idea. Iniziai a dondolarmi in avanti con tutto il corpo, finché non riuscii ad afferrare la trave. Poi presi la corda legata ad essa e la feci passare nel nodo della mia gamba sinistra, infine feci la stessa cosa con quella destra. 

Lasciai la presa dalla trave e velocemente precipitai verso il pavimento. Rivolsi i miei palmi, ancora legati, di fronte al mio volto e toccata terra mi diedi una spinta. Ero di nuovo in piedi. Mi avvicinai a uno dei mobili e con un chiodo sporgente sfilacciai la corda che mi stringeva i polsi. Quest'ultimi erano rossi, e le mani quasi viola. Li mossi per riprenderne coscienza, poi voltai leggermente lo sguardo. Vidi una porta in quercia tra due mobili alla mia destra, senza pensarci due volte la attraversai e salii le scale.

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