Capitolo 19: Obscurity

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Con passo sicuro e rassicurante mi diressi verso lo studio della Lion. Voltai diversi angoli per quei corridoi tutti uguali: grigi, tristi, piangenti. Silenziosi urlavano un segreto che ancora mi era tenuto nascosto, e per me era impossibile sentirli. 

Ero immune alla pressione e alla paura, che quel posto trasmetteva. 

Eppure le folte radici sotto quegli alberi, l'altra parte dell'iceberg erano ancora tutti da scoprire. Mi atterrivano. La mia mente vagava tra le domande, i sentimenti, annegando la mia ragione, ancora sottomessa alla stanchezza di tutte quelle nottate insonni.

Il senso di claustrofobia iniziava a farsi sentire, mentre alba dopo alba mi svegliavo e vivevo la quotidianità all'interno di quelle mura rigide, senza finestre, senza amore, caratterizzate da un continuo via vai. 

Molti ex Guardiani erano diventati agenti dopo la fine della loro carica. Ma nonostante avessero conosciuto lo stato in cui ci trovavamo, la sfida in prima linea che stavamo affrontando, ci guardavano con distanza, e sospetto. Era tipico. In quel posto non c'era spazio per i sentimenti, e anche la solidarietà era andava sempre più svanendo, come con tutti gli esseri umani. Lorenzo era nuovo e questo non lo aveva ancora capito. Girava con aria seria, ma un sorriso sempre stampato sul viso, salutando, e soccorrendo con aria solidale. Forse era per questo che lo odiavo? Perché era unico, aperto, più umano di ogni altra persona che avessi mai conosciuto dopo la Lion. Ed io ormai non ero più abituata a stare in un ambiente familiare, in cui sentirmi protetta con persone amiche, fedeli e palesemente vere. Forse era causato dall'allontanamento dal mondo dopo la morte di Vi, oppure era successo già prima. Non ero mai stata aperta agli altri, tendevo a rimuginare e pensare tra me e me. Ero la mia psicologa, la mia amica, la mia coscienza, la mia forza e il mio coraggio. La migliore compagnia ero me stessa, perché non solo mi capivo meglio di ogni altro, ma ero l'unica a conoscere i miei difetti e punti deboli. In un mondo che assomigliava sempre più alla selva oscura dantesca, era preferibile nascondere e reprimere il proprio carattere, per uniformarsi alla massa. Era quello che inconsapevolmente (o forse no) avevo fatto io.

Unione tra anima e corpo, essenza e umanità legate tra loro in un abbraccio eterno: questo eravamo io e Vì. Lui era l'altra parte di me: quella saggia, sognatrice e un po' bambina. Quella parte che si stupiva, mi dava coraggio, mi supportava e mi sgridava, quel lato migliore di me a cui raccontavo tutto e che, miscelato al mio subconscio mi conosceva meglio di chiunque altro, e mi sapeva leggere. La sua morte, quel 19 maggio diventato storia, aveva strappato con vigore Vento, portando con sé brandelli della mia anima. Allora allo stesso modo forse una parte di lui giaceva ancora in me? Ma io non riuscivo a sentirla. Se c'era era nascosta, segregata in un angolo e tenuta prigioniera.

Tutti quei sentimenti che avevo percepito durante l'allenamento forse ne erano la prova. Ma come potevo rendermene conto se non riuscivo neanche a comprendere il significato e le motivazioni di quel turbinio di sentimenti che mi travolgeva nei momenti più inaspettati?

Giunsi davanti a una grande porta alta circa due metri in stile vintage, infatti sembrava un portale di una cattedrale. Era in marmo e divisa in quattro scene, incorniciate da alcuni motivi decorativi, e al centro lo stemma dell'Agenzia. Tre lettere (ASG) incorniciate da un ramo di alloro. Ci passai la mano sopra, toccando a occhi chiusi, in modo da percepire ogni dettaglio. Sentivo la pietra scaldata dal mio calore, gli altorilievi, e riuscivo a percepire ogni ventura marmorea. Mi parve che le mie cellule distinguessero i colori sotto i miei palmi: il verde, il grigio, il bianco pallidissimo e l'oro. Riaprii gli occhi, ancora incantata dalla bellezza di tale manifattura.

Non c'erano maniglie così, appoggiandomi, spinsi violentemente. Ci fu un leggero cigolio, e la porta si mosse appena, ma abbastanza da riuscire a passare. Oltrepassai la soglia e mi ritrovai davanti a un grande salone. C'era una scrivania in legno teak, semplice ma elegante. A fare da seduta c'era una sedia in legno scuro di quercia, con la seduta in pelle verde. Lo schienale e i braccioli erano decorati con dei ghirigori.

Le pareti bianchissime erano coperte per lo più da foto e librerie. Queste ultime contenevano vecchi volumi risalenti fino al duecento, e riguardanti la vita e le opere dei Guardiani delle generazioni precedenti, i conti e la storia dell'Agenzia, e, infine, vecchie magie potenti mai scritte sui nostri grimorii e non accessibili a noi Guardiani o agenti comuni. Infatti, quei libri erano le uniche copie esistenti, e non erano presenti nella biblioteca ufficiale dell'ASG. Non ero mai stata in quel posto. Mi era stato detto, però, che conteneva volumi invidiabili, anche se erano per lo più consultati dai cadetti che si stavano addestrando. Infatti, bisognava conoscere ogni singola parte dell'Agenzia, così come la sua storia. Io stessa la avevo imparata, senza, però, girovagare mai tra le librerie e l'odore di polvere e muffa, sfogliando pagine antiche e toccando copertine in pelle. La professoressa stava lì seduta, leggendo attentamente con gli occhiali dei documenti. Quando entrai alzò leggermente lo sguardo, interrompendo la sua azione. Era sorpresa. Sul suo viso si leggeva un'emozione fugace e improvvisa, neutra e breve. La bocca era leggermente aperta, le pupille dilatate, ma era aspettabile: non avevo motivo di stare lì. Tuttavia ne avevo abbastanza di questi segreti esoterici e velati e delle domande che mi tormentavano la mente, insorgendo nei momenti più inaspettati. Mi avvicinai alla scrivania. Tra i palmi giallastri avevo ancora la fotografia tenuta stretta dalla cornice.

«Voglio sapere chi è» dissi con voce sicura e atteggiandomi con fierezza. Volevo evitare che la Lion leggesse il mio animo. Sapeva penetrare dai miei occhi e arrivare fino alle mie cicatrici interiori, facendomi affondare in un caldo e sicuro abbraccio. Allungai ciò che avevo tra le mani.
«Cos...» le rivolse uno sguardo molto di sfuggita, poi lo allontanò rivolgendolo ai miei occhi, ma le mie porte erano serrate. Delusa, sconcertata e rassegnata riabbassò il volto verso la foto, poi al piano della scrivania.

«Ventus, hai avuto un'altra visione» mi disse. Non mi chiamava mai così, ma sempre con il mio nome. Fu un dettaglio che mi fece rabbrividire. Lo aveva pronunciato con un tono che non avevo mai sentito uscire dalla sua bocca. Stava cercando di deviare la mia attenzione dal discorso? Oppure la situazione era più seria di quanto pensassi? Non riusciva neanche ad alzare lo sguardo, e a guardarmi negli occhi.

«Cosa hai visto?»

«Un laboratorio, un'ombra, l'uomo che mi ha aggredita l'altra notte.»

La Lion si tolse gli occhiali e li poggiò sulla scrivania, poi iniziò a massaggiarsi le tempie. Le si leggeva la stanchezza sul volto, ma anche qualcos'altro: un segreto, nascosto per anni, e che ora era costretta a rivelare.

Si alzò senza guardarmi negli occhi. Andò verso la porta e ne oltrepassò la soglia. Capii che voleva che la seguissi, e lo feci. 

Passo dopo passo attraversavamo le ali dell'Agenzia.

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