31. L'ultima spiaggia - trovare un lavoro

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Tranne Crystal, le altre due donne implicate e l'ingegnere, nessuno era al corrente della sua gravidanza e non intendeva confessarlo a qualcun altro.

La vergogna era atroce come atroce era il pensiero di doverlo dire ai suoi genitori, poveri genitori disgraziati nell'avere una figlia come lei e un figlio come il suo fratello.

No, era inammissibile doverlo fare e, a questo punto, l'ultima spiaggia era di trovare un lavoro, anche se la spaventava da morire l'idea di dover affrontare la crescita di un figlio da ragazza madre, con o senza lavoro.

Non ci pensava affatto di dirlo a Sebastiano, soprattutto dopo l'ultima volta che l'aveva visto e quelli flash sfuggenti e terribili che aveva su quell'ultimo incontro in tre o solo buon Dio e loro lo sapevano in quanti.

Aveva bussato a tutte le porte che esistevano per cercare lavoro, l'ultima porta non ancora provata era di una ditta di macellazioni avicoli, molto nota e fuori città.

Si presentò subito dopo aver sentito che lì è possibile essere assunta, avendo sempre bisogno di personale.

Chiese di essere ricevuta dal capo del personale, quale la ascoltò e le disse velocemente che non c'è posto per lei, che loro hanno bisogno di solo personale non qualificato e lei non ha cosa fare lì, avendo un diploma e soprattutto essendo pure incinta.

Veronica si mise letteralmente in ginocchio davanti a lui ed iniziò scongiurarlo di assumerla proprio perché incinta e sola al mondo, promettendo di lavorare più del richiesto, di dare il meglio di sé per qualsiasi cosa le venga richiesta e che non pretenderà nulla che la paga che decideranno loro di darle, per un principiante non qualificato.

Era imbarazzante la sua insistenza e posizione, come dava segni anche il capo, che non cedé facilmente.

Solo per togliersela dai piedi accettò e le disse di presentarsi già il giorno dopo al lavoro.

Il ritorno a casa fu un volo tra le nuvole per la gioia indescrivibile che stava vivendo al pensiero che almeno avrà un lavoro e, poi si vedrà per il resto.

Festeggiò con Crystal il grande evento, comprando dei pasticcini freschi, che piacevano molto a tutte e due.

Quando si presentò alla capa della sezione fu informata che non sarà assunta con un contratto regolare, ma che se farà la brava e dimostrerà un lavoro ben fatto, senza pretese e richieste, lamentele e sospiri, potrà avere l'opportunità di continuare per quanto ne avranno bisogno.

Seppe già dal suo superiore che Veronica era incinta, probabilmente per questo che la misurò dalla testa ai piedi e le disse che non le interessava il suo stato, ma che dovrà iniziare dalla prima sezione, dove venivano tagliate le gole dei pollo e tacchini poi venivano spennati.

Ricevete la tuta da lavoro e gli stivali di gomma e fu accompagnata per il grande inizio.

Quando entrò nell'impianto di macellazione fu colpita da un'aria nauseante da farla indietreggiare, ma fu spinta in avanti dall'accompagnatrice, quale le fece vedere la sua postazione.

Molto sommariamente le disse che il suo lavoro era troppo semplice: doveva prendere più rapidamente che poteva i tacchini dalla banda rullante e riattaccarli su un'altra. Tutto qui.

Aggiunse che non poteva lasciare la sua postazione se non in pausa pranzo, perché le bande giravano continuamente e siccome le altre operaie avevano le loro postazioni e ciascuna la sua mansione, non doveva far lasciare tornare le povere bestie dal posto che arrivavano. Altrimenti avrebbe fatto rallentare il procedimento e il rendimento suo che delle altre. Questo non era per nulla ammissibile.

L'aria era talmente calda e puzzolente di carne e piume bollite, l'acqua in eccesso le scorreva lungo le braccia fino al torace, risultando fradicia come le piume dei penati, mescolandosi con il sudore per il lavoro forzato. Dopo qualche minuto le venne vomitare, ma dovete rimandarlo giù, più e più volte, quasi da soffocare.

Dopo le più di 12 ore di quel lavoro incensante arrivò a casa esausta e con male insopportabile alle braccia e piedi, perché sì, doveva stare sempre in piedi, anzi, spostarsi velocemente se fosse bisogno da una banda all'altra.

La prima notte la passò in bianco, appena chiudendo gli occhi vedeva solo le bande con i polli, galline, tacchini grossi anche più di 15 kili che tremavano per il movimento dei macchinari.

Giorno dopo giorno era peggio, accumulando stanchezza, mancanza di riposo e sonno, nausea per l'aria irrespirabile.

Dopo quasi un mese di quel lavoro, il capo del personale si prese pena di lei per quale aspetto aveva e decise di "aumentarla in grado". Ciò significava che passava alla prossima sezione, dove venivano imballata la carne. Doveva stare sempre in piedi e sapeva sempre di carne cruda ammassata, ma almeno non era più il caldo e il fetore soffocante da l'altra parte.

La carne che veniva messa nelle vaschette doveva essere impeccabile, non avere un solo punto nero, chiazzo di sangue, piume ecc., andando tutta per l'esportazione.

Stare per altre 12 ore al giorno a spelacchiare e pulire ogni centimetro di carne era anche questo una gran impresa. Aveva continuamente sonno e le capitava spesso di addormentarsi letteralmente con i pezzi in mano, in piedi. Non sapeva mai quanto tempo stesse in quello stato di dormiente cavallo, ma sentiva senz'altro le gomitate e le risate delle altre sul suo conto.

Nessuna le rivolgeva la parola, se non necessariamente per dirle di fare o prendere qualcosa, insinuandole di muoversi più velocemente. Tutte se limitavano gettarle qualche sguardo fuggitivo, ironico, sprezzante. Era il pagliaccio  della fabbrica, con la sua gravidanza da nubile.

C'erano anche tante altre incinte, ma erano gran donne, rispettate e rispettabile, non come lei.

Non passò molto tempo nella nuova mansione che un giorno, mentre si recava al lavoro in pullman, sentì le labbra indolenzite e come addormentate, le dita delle mani che si storcevano e si senti mancare. Si svegliò al pronto soccorso circondata dal personale che provvedeva al suo rinvenimento. 

Le dissero che aveva avuto una grave crisi di spasmofilia, scattata a causa della stanchezza e stress e che dovrebbe avere sempre con sé delle fiale di calcio e prendere una appena sente i primi sintomi.

Non si permetteva comprarsi neanche da mangiare, se non il stretto necessario per poter stare in piedi a lavoro, comprare delle fiale di calcio era fuori discussione, per cui finì in pronto soccorso abbastanza spesso, da essere ormai conosciuta da tutto il personale, che non si stancava di rimproverarle l'inconsapevolezza delle conseguenze.

Nutrirsi in modo sano e genuino per far crescere sano il bimbo che lo portava in grembo, no, non le era possibile e a dirla tutta, non era una sua priorità, da ignorante, da cattiva, da incosciente, non aveva importanza, non ci riusciva e basta.

Lo stato di salute, il rischio di perdere anche quello misero lavoro e paga, la fece pensare che in questo modo non ne poteva più andare avanti. Niente le dava un granello di speranza che fosse mai capace a crescere ed allevare il bambino da sola, se non era capace provvedere a lei stessa.

Cercò di trovare ancora qualcun'altra addetta per abortire, ma nessuno era disposto a darle qualche nome o dritta e il tempo volava e la sua pancia cresceva, aiutata dallo sviluppo di quella creatura senza alcuna colpa delle sue sventure.

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