Quando l'amore non basta

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Sento Jack salire le scale, credo che mi abbia sentito singhiozzare. So che è davanti alla porta, ma non bussa, non entra.

"Vieni...so che sei lì..."

Riesco a dire anche con la voce rotta dal pianto.

"Scusa, non volevo disturbarti."

"Mi dispiace."

Gli dico.

"Di cosa?"

"Di rispondere no a quello che stai per chiedermi."

"Non capisco."

"Non posso farti leggere la lettera. Io non ce la faccio, sto malissimo."

"Ma io non te lo volevo chiedere... capisco il tuo dolore e lo rispetto, per questo non te lo chiederei mai."

"Grazie".

Sussurro. Mi abbraccia e sta lì un po', senza far niente. E' quello di cui ho bisogno. Un abbraccio e il silenzio che accompagna da sempre la tristezza delle persone. Rimango così: la testa vuota e gli occhi fissi nel vuoto. Dopo poco lo sento muoversi, ma non me ne preoccupo. Tengo gli occhi chiusi e mi godo quel momento finché non è interrotto dalle sue labbra che sfiorano le mie. Appena me ne accorgo mi scanso. No! E' appena morto Mike, non mi posso mettere a baciare il primo che mi consola!

"Non posso...non posso."

Dico senza neanche rendermene conto. Non mi dice né mi fa più niente. Rimaniamo lì per quasi tutto il pomeriggio, fino a quando non sentiamo la voce di James che ci cerca.

"Vado io."

Gli dico.

Scendo, saluto James che si offre per aiutarmi a preparare da mangiare. Mi sfrego gli occhi e cerco di non far vedere che ho pianto. Ma il bambino se ne accorge.

"Che hai?"

Mi chiede mentre pela una patata.

"Prima avevo una spina nel dito. Ora l'ho tolta. Mi fa ancora male, però."

"Vuoi un cerotto?"

Lo guardo tenera.

"No, grazie."

Ci rimettiamo a cucinare. Destreggiarsi tra i fornelli comincia ad essere facile. Ho solo un pensiero in testa. Non riesco a togliermelo. Mi rimbalza da una parte all'altra del cervello e non mi fa concentrare su nient'altro. Devo sfogarmi. Devo togliermi quella curiosità ossessionante che ho dentro. Così mentre mangiamo dico a Jack:

"Ho deciso di partire per Calenia, domattina."

"Perché?"

Sorrido senza rispondere.

"Okay. Ti accompagno. A che ora vuoi partire?"

"No, io parto domani, tu resti qui con James. Devo far finire questa stupida guerra e subito!"

Esclamo. Apre la bocca come per controbattere, ma non ne esce alcun suono, non sa che dire. Mi alzo. Do un bacio sulla fronte a James, abbraccio Jack e salgo di sopra. Mi butto sul letto. Forse sto sbagliando. Dovrei rimanere a casa come ha detto il generale nella lettera. Non posso. Devo dare il mio contributo, nel solo modo che conosco. Tra questi pensieri, cala il sonno.

A svegliarmi nella notte sono dei piccoli passi che scricchiolano sul parquet. Mi volto mugugnando.

"Marysol? Sei sveglia?"

Dicono i piccoli passi.

"Adesso sì."

"Mi dispiace... non importa..."

James sta per uscire dalla mia camera, quando, con la forza del bene che gli voglio, mi riesco a mettere seduta ed a chiamarlo.

"No, no... dimmi."

Gli dico facendogli cenno di avvicinarsi.

"Ho fatto un brutto sogno... mi puoi raccontare una storia?"

"Oh, ma certo. Ti racconterò una storia di Calenia, il luogo da dove provengo. Pronto?"

Annuisce.

"La fiaba s'intitola le fate di Monteoe.

In un tempo lontano sulla cima del monte Monteoe, stava un palazzo tanto bello che sembrava un castello di principi e di re. Lì vivevano le fate. Erano leggere come farfalle e potevano volare in ogni luogo con le loro ali multicolori. Quando si muovevano illuminavano tutto attorno a sé, come le lucciole. Ma avevano un difetto: erano mute. Ogni notte le fate lasciavano il monte e scendevano fra gli uomini. Andavano a curiosare in tutte le case. Riuscivano ad entrare dal buco della chiave o attraverso le finestre socchiuse. Spesso capitava che trovassero qualcuno che gli riusciva particolarmente simpatico. Magari perché dormiva con un dito in bocca, se era un bimbo, oppure perché era tanto povero da dormire per terra. Se qualcuno gli era veramente simpatico, si avvicinavano e lo svegliavano prendendolo tre volte per il naso. Lo tiravano giù dal letto e si facevano seguire fino al monte Monteoe. Quando arrivavano al palazzo prendevano per mano l'invitato e lo conducevano ad una tavolata dove banchettavano con petali di rose e vino di ginepro, seduti su morbidissimi tappeti di nuvole color pervinca. Conclusa la cena, guidavano l'ospite verso un sotterraneo di cristallo pieno zeppo d'oro, di diamanti, di perle, di denari e di gocce di mare. Tutto risplendeva. C'era però una magia: il tesoro non poteva essere toccato da mani d'uomo, fino allo spuntar del sole. Le fate, pur conoscendo questo segreto, non potevano spiegarlo. E questo era il loro grande cruccio. Tentavano di farsi capire a gesti o con i movimenti delle ali, ma non bastava. L'invitato, incantato dagli ori e dai gioielli, non badava alle alucce che danzavano. Allungava subito le mani per prenderlo... ma il tesoro, non appena toccato, si trasformava in carbone. Tante volte fu tesoro, e altrettante diventò carbone. Mai nessuno capì il messaggio delle fate, che ad un certo punto si stancarono e sparirono assieme al castello. Il sotterraneo di cristallo sta ancora là sotto. Chissà dove."

Vedo James che sonnecchia sul mio letto. Lo porto in braccio nella suacamera. La favola delle fate funzionava sempre anche con me. E' la mia favolapreferita, perché non finisce come le favole tradizionali ed ti lascia un po' abocca asciutta. Rientro in camera e mi rimetto sotto le coperte color vaniglia.Può sembrare strano, ma sogno le fate di Monteoe.     

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