Capitolo 25

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Mi fido di te

Jovanotti



Quando sono entrata nella polizia centrale ero già pronta a darmela a gambe levate. Mi tremavano le mani, il corpo e i piedi erano diventati di gelatina tanto da pensare di cadere da un momento all'altro. Ero pronta ma la paura era troppo forte per poter dire di esserne veramente sicura al cento per cento.

Prima di fare le scale Dylan mi ha tenuta per le spalle guardandomi attentamente e sussurrandomi un 'sono orgoglioso di te.' E' stato bellissimo, nessuno mi ha mai detto di essere orgoglioso di me.

Ho suonato il campanello e i cancelli si sono aperti subito dopo, due guardie davanti alla porta principale non mi hanno nemmeno degnata di uno sguardo quando ho detto loro "buonasera."

I corridoi erano bui, senza un minimo di colore e l'aria che si sentiva era proprio quella di una centrale. Il pavimento di ceramica liscia mi permettevano di vedere un po' il mio riflesso sbiadito; sicuramente era meglio che non ci fosse uno specchio. La mia faccia era ed è sicuramente pallida e l'ansia mi mangiava lo stomaco. Non capisco assolutamente come le persone facciano a mangiare quando sono nervosi, a me lo stomaco mi si chiude fino alla faringe.

Sono quasi diciotto anni di vita passati a scappare dalla realtà. Preferivo mille volte nascondermi e far finta di niente.

"Domani è un altro giorno." Mi ripetevo. Ma non lo era.

Anzi, più passava il tempo e più davo possibilità a lui e agli altri di mangiarmi viva, di prendersi gioco di me e di rifornirmi di nuove insicurezze.

"Devo sporgere denuncia." Ho dichiarato lentamente.

Il maresciallo, un uomo dell'età di mio padre mi ha guardato con diffidenza inizialmente ma con un grande respiro ho raccontato tutta la mia storia. Non mi importava se gli sono sembrata emotiva e chiunque avrebbe scambiato quel "colloquio" come una seduta dallo psicologo.

Mi ha sorriso e mi ha unicamente fatto due domande: "Dove abitavi? e "Dove abiti?"

Mi ha fatto finire di parlare e mi ha detto: "Sai, ogni giorno e non immagini neanche quanti casi abbiamo come il tuo, ci sono ragazze picchiate dai genitori dagli amanti o dai fidanzati."

Ho aggrottato la fronte e sono rimasta a guardarlo a bocca leggermente aperta.

"Cosa pensavi? Di essere l'unica?" Mi ha sorriso in modo sincero.

In realtà non ci avevo nemmeno pensato. E' naturale che non sia l'unica, c'è chi se la passa anche peggio di me ma il pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato la mente.

"Ma in poche come te trovano il coraggio di chiedere aiuto." Continuò.

In quel momento i miei occhi si sono riempiti di lacrime e per ricacciarle indietro ho girato la testa all'indietro e ho fatto un respiro. Mi ha detto che inevitabilmente avrebbe dovuto mettere in mezzo i servizi sociali e che per oggi potevo rimanere nella casa del mio amico finché non sistemeranno tutte le cose.

Mi sono liberata di un enorme peso una volta che sono uscita dalla centrale ma improvvisamente, quando ho visto lui, mille domande su cosa potrebbe succedere dopo hanno iniziato a dominare la mia testa.

Sicuramente adesso dovrò stare in una casa famiglia fino a quando non avrò la maggiore età e questo mi spaventa moltissimo. Non che manchi  chissà quanto tempo, ma è comunque un passo che non avrei mai immaginato di passare.

"Mi fai un favore?" Mi chiede Dylan dopo aver passato un bel po' di tempo a camminare in silenzio.

"Quale?" Chiedo, alzando lo sguardo.

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