CAPITOLO VENTINOVE

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Ci vuole coraggio ad aspettare chi non torna.

Chiamai Anna quella mattina, appena sveglia, e le raccontai ciò che era successo la sera prima al locale. Rimase scioccata anche lei dal modo in cui mi aveva trattato, forse non se n'era nemmeno reso conto, mi aveva illusa che fosse venuto lì a parlarmi per riprendermi e invece aveva distrutto tutte le belle parole che aveva detto prima con quel 'sciocchezza'.

Perché per lui era una semplice sciocchezza, mentre per me aveva tanto valore? Forse non riusciva a capirne l'importanza perché non provava gli stessi sentimenti che avevo io nei suoi confronti. Temevo di ricevere una risposta, anche perché avevo quasi la certezza che quella risposta non mi sarebbe piaciuta affatto.

Presi il giubbotto leggero, misi le scarpe e infilai le cuffiette, salutai la mamma e Jona e uscii. Ero ancora in pigiama, ma non mi importava. Andai verso il piccolo parchetto del comune dove vivevo, quando ero piccola venivo sempre qui con la mamma a giocare il pomeriggio, tra mille giochi e bambini della mia età.

Con il tempo ero cresciuta e avevo cominciato a non frequentare più il parco per la compagnia degli altri bambini, venivo qui principalmente da sola, con le cuffie nelle orecchie e la musica a palla. Non ci avevo mai portato nessuno, fino a qualche mese fa quando ci avevo portato lui, il giorno in cui ci eravamo fatti fare una foto da un passante.

Qualsiasi cosa mi riportava indietro a lui, mi faceva tornare il sorriso per qualche secondo, ma poi la sua mancanza mi schiacciava e mi sentivo peggio di prima.

Restai parecchio tempo in quel parco, tra le dolci note della musica e i forti schiamazzi dei bambini che sovrastavano la melodia delle mie cuffiette. Mi piaceva osservarli mentre sei rincorrevano e giocavano felici, mi faceva sorridere e mi distraeva dalla realtà.

Tornai a casa e pranzai con la mia famiglia, aiutai a sistemare e poi mi rinchiusi nella mia camera con la scusa di studiare. Aprii il libro che mi aveva prestato Fede, Teorema Catherine, e cominciai a leggerlo. Mi sentivo un po' come il protagonista, svuotato dalla mancanza di C19 e, proprio come lui, cercavo di dare una spiegazione al perché fossi stata mollata.

Non c'era una spiegazione del perché Marco mi avesse piantata in asso, semplicemente per il fatto che noi non eravamo mai stati qualcosa di più di quell'amici pronunciato durante le vacanze e, probabilmente, mai lo saremmo stati.

Faticavo a pensare che saremmo anche solo potuti tornare quelli di prima, anche perché, come avevo già detto, lui cercava di consolarmi o comunque di risolvere le cose ma, inevitabilmente, finiva sempre per ferirmi. Questo perché ero stata così stupida da innamorarmene ed ora il sentimento che provavo verso di lui era talmente forte che era impossibile trascurarlo e fare finta che non ci fosse perché ci avevamo già provato, ma il nostro esperimento era fallito.

*  *  *

Erano passati diversi mesi, ma le cose non erano cambiate.

Continuavamo ad ignorarci, qualche volta lo sguardo mi cadeva su di lui, ma non lo sorprendevo mai a guardarmi. Era triste vedere come lui potesse fare a meno di me, mentre io non ce la facevo proprio.

Stavo ogni giorno peggio, la distanza non mi aiutava affatto. Il fatto che lui fosse così indifferente mi portava a sperare sempre più di trovarlo a fissarmi o anche solo sognare che lui mi stesse pensando. Non aiutava perché mi stavo illudendo e, nonostante non ci parlassimo da quel maledetto sabato sera, i miei sentimenti per lui non erano cambiati.

Tutto era diverso, noi lo eravamo, il nostro rapporto e il modo in cui ci ignoravamo quasi completamente, tutto tranne il fatto che fossi ancora persa per lui.

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