le origini di Laughing Jill

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( questa versione non è ufficiale però mi sembrato carino metterla)

Seduta tranquilla a giocare al centro della sua stanza, vi era una bambina di appena quattro anni. Giocava da sola perché non aveva amici e questo non era sfuggiti ai suoi genitori, che avevano subito cercato di porvi rimedio, ma inutilmente. Ricordavano ancora le parole degli altri genitori alla loro richiesta di far fare amicizia ai loro figli con la propria bambina: “vostra figlia è un mostro!”, “quella bambina non è normale!”, “ha terrorizzato mio figlio con storie inquietanti e minacce di morte!” ecc. ecc.
 
Il padre e la madre la osservavano preoccupati da uno spiraglio della porta socchiusa. Ora sembrava calma, con la testa leggermente chinata in avanti e una pioggia di capelli neri che impedivano la visuale ai suoi genitori che difatti non riuscivano a vedere con cosa stesse giocando. Dopo pochi minuti, si alzò e fu allora che videro che la loro unica figlia aveva appena legato al collo della sua bambola un cappio e ora stava legando la cordicella alla maniglia della finestra cosicché il povero giocattolo sembrasse impiccato. In silenzio richiusero la porta e si guardarono  in silenzio: era pazza, avevano tutti ragione. Dovevano fare qualcosa.
 
 
 
 
 
 
 
“Jill, svegliati: abbiamo un nuovo arrivato, vieni a presentarti”
Urlò una delle tante infermiere che lavorava nel manicomio dove ormai la bambina viveva.
La piccola, svegliata da quell’ improvviso e violento bussare, si decise ad aprire gli occhi ancora mezza addormentata. Nonostante abitasse lì da ormai tre mesi, ogni volta lei sognava di esser svegliata dalla tenera carezza di sua madre tra i suoi capelli corvini e dal sorriso luminoso del padre, ma non sapeva se li avrebbe mai più rivisti. In realtà non le dispiaceva poi granchè: loro non erano mai riusciti a capirla e il fatto che l’ avevano abbandonata in quel luogo ne era la prova. Più che un manicomio, infatti, quell’ edificio assomigliava all’ inferno in terra: era sempre buio e sinistro, si sentivano urla provenienti da chissà dove e torturavano le orecchie e gli animi di tutti i residenti. Le infermiere e i dottori erano dei diavoli sempre pronti ad insultare, picchiare o imbottire di medicinali i “malati” e mai Jill aveva parlato da quando era arrivata. Si limitava a subire e registrare minacce e orrori che la perseguitavano anche nei suoi incubi, oltre che nella vita diurna. Ma ora non c’ era tempo per lei di fermarsi a riflettere, doveva andare a conoscere il nuovo rinnegato.
 
 
Il nuovo paziente considerato pazzo dai suoi genitori, si chiamava Isaac Grossman ed era bambino di due anni in più di Jill. Il terrore era l’ unica emozione che lo dominava in quel momento e fu quello che spinse la bambina ad avvicinarsi a lui.
 
“Non preoccuparti, bambino, se stai buono e non fai nulla di male vedrai che ti tratteranno bene..”
 
Isaac rispose con un sorriso teso, per niente rassicurato. Poi guardò meglio la sua nuova amica che gli sorrise prima di presentarsi a lui.
 
“Sei nella camera vicino alla mia!” Disse Jill raggiante.
 
 
Quel ragazzo le era simpatico e lei aspettava da tanto un amico…
 
 
 
 
 
 
Con gli anni diventarono inseparabili. La loro amicizia e il conforto e il bene che si donavano reciprocamente li aiutava a sopravvivere a quella realtà penosa che nessun essere umano dovrebbe conoscere. Si potevano dire quasi felici, quando stavano insieme. Capitava molte volte che la notte o Isaac o Jill, terrorizzati dagli incubi, si ritrovassero nella camera di lui, un po’ più grande di quella di lei, e trascorrevano il tempo fino all’ alba a raccontarsi di come era la loro vita prima che fossero rinchiusi in manicomio. E una sera Isaac decise di raccontare del suo migliore amico: Laughing Jack.
 
“…ti assicuro: era fantastico..Ehi ho un’ idea: quando uscirò di qui te lo farò conoscere e giocheremo insieme!”
 
E, per quella notte, il corridoio si riempì delle risate di gioia dei due bambini.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Isaac Grossman, avendo tu compiuto la maggiore età, puoi essere libero di uscire dal manicomio. Hai ereditato la casa dei tuoi genitori, essendo loro entrambi morti. Inoltre, ti è stato assegnato il lavoro di carpentiere, come tuo padre. Arrivederci e buona fortuna.”
 
Sono queste le parole che udì Jill, ormai sedicenne, mentre spiava dalla porta dell’ ufficio del direttore del manicomio dove il suo amico era stato convocato. Anche se ormai la conversazione era finita e lei avrebbe dovuto allontanarsi per essere scoperta ad origliare, lei se ne stava ferma, completamente paralizzata. Non voleva rimanere sola e la parte egoistica di lei voleva che il suo unico amico rimanesse almeno finchè lei non avesse compiuto diciotto anni e allora se ne sarebbero potuti andare insieme. Però dall’ altra parte capiva che finalmente per Isaac era finito il supplizio e se ne sarebbe potuto andare da quell’ inferno. La porta si aprì e il ragazzo biondo le sorrise malinconico non appena ebbe capito che lei sapeva già tutto.
 
“Oh Jill, mi dispiace...però io ti aspetterò!” disse lui in lacrime mentre la abbracciava e le porgeva un biglietto con su scritto il suo indirizzo. Poi si allontanò e fu l’ ultima volta che lei lo vide.
 
 
 
 
 
Due anni passarono senza nessuna notizia di Isaac, nonostante lui le avesse promesso che le avrebbe scritto o che la sarebbe venuta a trovare per non lasciarla sola, ma niente.
Jill non vide mai né lui né tantomeno una sua lettera.
 
Appena fu permesso anche a lei di lasciare il manicomio per la maggiore età, si recò subito all’ indirizzo lasciatole da Isaac.
 
 
                                                                                                   ‘Round and ‘round the cobbler’ s bench 
                                                                             the monkey chased the weasel   
 
Aprì la porta della casa del suo amico e si mise alla sua ricerca, poi notò che del sangue colava dalle scale che conducevano al piano di sopra…
 
                                                                                                     The monkey thought it was all in fun.
 
 
Tutto quello che trovò furono i resti del suo amico di infanzia e una strana ombra che torreggiava su essi. Si voltò con cautela con il terrore che le si era insinuato fino al midollo e fu allora che lo vide: un immenso clown in bianco e nero.                     
 
                                                                                                     POP! Goes the weasel
 
Ma ormai nella folle mente della ragazza nulla era più normale. In tutta la sua vita se c’ era una cosa che aveva imparato e che le ripetevano in continuazione è che lei era pazza perché preferiva torturare invece di giocare, stare da sola piuttosto che con le altre bambine, odiare invece di amare. Una risata femminile riempì le pareti che finora avevano udito solo urla.
 
Dal canto suo, il pagliaccio monocromatico la restava a fissare, allibito per la sua reazione.
 
“Sei Laughing Jack, non è vero?” Chiese beffarda Jill una volta che aveva cessato di ridere e gli rivolse un sorriso di sfida.
 
“Si sono io. E odio le piccole impertinenti come te!”
 
E detto questo allungò le mani artigliate per cercare di afferrarla, ma lei si scansò in tempo e rise ancora, mandandolo su tutte le furie.
 
“Cosa hai tanto da ridere!?! Risparmia il fiato per le suppliche quando ti ridurrò come lui!”
 
“Ah si? Allora prendimi, Jackie!”
 
La ragazza iniziò a saltellare come un’ invasata per tutta la stanza, ridendo a crepapelle per l’ espressione arrabbiata e insieme frustrata del clown. Improvvisamente gli saltò addosso abbracciandolo.
 
“Uh e adesso vediamo cosa mi vuoi fare!”
 
Lui la prese per la vita graffiandola con i suoi artigli e la condusse alla tavola della tortura, ma notò che lei gli stava sorridendo beffarda. Non aveva paura né di lui né di quello che avrebbe potuto farle.
 
“Adesso, Jackie, ti consiglio un bell’ attrezzo appuntito per cominciare a torturarmi…io lo so, sono esperta: torturavo sempre le mie bambole”
 
“Hai molto senso dell’ umorismo..un po’ fuori luogo non credi?”
 
“Nella vita bisogna sempre divertirsi, sia che va male sia che va bene”
 
“Interessante punto di vista, te lo concedo. Ma fammi capire…tu che facevi da bambina?!?!”
 
“Torturavo le mie bambole e gli animaletti che trovavo nel mio giardino” e di nuovo un risata.
 
“Mmh è per questo che non ti fa paura quello che sto per fare?”
 
“Perché che stai per fare?” chiese Jill innocentemente fingendo di non capire.
 
Laughing Jack la fissò per un momento, poi guardò il suo riflesso allo specchio e gli venne un’ idea.
 
“Come hai detto di chiamarti?”
 
“Jill”
 
Insieme a lei ancora ben stretta tra le sue grinfie, si teletrasportò nel suo mondo parallelo dove notò che anche il suo amato Luna Park era diventato in bianco e nero come lui, e condusse la ragazza sotto un grosso tendone e le mise in mano un costume da clown al femminile, dopodiché la lasciò da sola per cambiarsi.
 
Poco prima, nella stanza di Isaac, aveva guardato nei suoi occhi e si era riconosciuto in lei: stessa follia, stessa sete di sangue e stesso gusto nel torturare e aveva deciso di risparmiarla, anche perché era rimasto colpito colpito dalla sua amara ironia, che era un tratto che la accomunava a lui. Laughing Jack si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì il frusciare della tenda che si apriva e comparve la ragazza vestita di tutto punto quasi identica a lui.
 
“Benvenuta nel mio mondo, Laughing Jill”

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