Dolce Parassita

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Ogni persona è avvinghiata al cuore di qualcuno...

C’è chi lo sa, ed ha la fortuna di ricambiare il sentimento; c’è chi lo sa ma non può, non riesce a ricambiare il sentimento, magari ne è dispiaciuto, magari no, e l’altra persona è straziata da sensi di colpa ingiustificati e pene psicologiche auto inflitte di ogni sorta; poi c’è chi non ne ha idea, e sempre senza saperlo tortura il cuore di quel qualcuno giorno e notte, tutti i giorni e tutte le notti. Per quest’ultima persona è una vera e propria tortura, perché non ha il coraggio di rivelarsi, e quindi non ha nemmeno la certezza del rifiuto; può arrivare a sprecare mesi, anni, o addirittura una vita, vivendo nel limbo del dubbio, più efficace di qualsiasi metodo dell’Inquisizione. E la persona che si ama resta inconsciamente avvinghiata nel nostro cuore per tutto questo tempo, come un dolce parassita.

E so bene di cosa parlo.

Era così, io l’amavo.

Erano anni che me lo tenevo dentro. Era da quando avevo quindici anni, e ora ne avevo 36. Non ero mai riuscito a fare niente. Lei era così bella, fiera, libera… bastarda. L’amavo malgrado questo, anzi, l’amavo anche - sapevo che lo era, lo leggevi in quel suo mezzo sorriso - quando si accorgeva che i suoi occhi blu e la sua quinta di seno avevano di nuovo tirato scemo qualcuno. Eppure invidiavo quelle sue vittime, quelle a cui lei lo leggeva in faccia, che avevano sbarellato. Almeno loro, anche se indirettamente, si erano liberati del loro fardello, non riuscivano a nasconderlo. Io invece ero un tocco di marmo, freddo, silenzioso, inespressivo, con lei soprattutto. In tutti quegli anni non ero riuscito a sfiorarne i capelli, toccarne una spalla; nemmeno farle un gesto, nemmeno dirle una parola. Nemmeno conoscerla davvero.

Dopo quegli anni ad osservarla, lei per me era un libro aperto; bastava una scintilla nei suoi occhi, uno spasmo delle dita, un gesto, e potevo giurare di sapere cosa stesse pensando. La vedevo tutti i giorni, ogni giorno sognavo di parlarle, toccarla… baciarla.

E lei nemmeno mi conosceva.

Non ero brutto, anzi; molte ragazze e molte donne erano cascate ai miei piedi, sia per il mio aspetto fisico che proprio per quella freddezza che mi caratterizzava, quell’apparente cuore di ghiaccio, del colore delle mie iridi. Erano sempre i miei amici a farmelo notare; io non me ne accorgevo mai, e non mi interessava. Non mi importava nemmeno nulla che ci soffrissero, dato che ero io il primo a soffrire, e questo molto più a lungo di ognuna di loro. Oggettivamente, in tutti quegli anni alcune di quelle ragazze erano anche un buon partito, belle, simpatiche, intelligenti, acculturate. Ma il mio cuore era occupato totalmente da lei, lei anzi ci stava stretta in quel mio organo vitale; al punto che non avevo mai posseduto una donna, mai nemmeno ne avevo baciata una. Ma non mi importava, solo lei avrebbe mai potuto sfiorarmi come un’amante può fare. Solo lei.

Per certi versi eravamo simili. Come ho già detto, lei era bellissima, nessuno poteva avere dubbi a riguardo, e anche io ero stato un bel ragazzo, e ora un bell’uomo, indubbiamente. L’altra cosa era che lei aveva sempre amato flirtare, qualche volta s’era messa insieme a qualche ragazzetto ma era durata poco; insomma, anche lei era sempre stata sola, non aveva mai trovato un compagno fisso. Nessuno di quelli che conosceva era come me, e questo avrebbe potuto incoraggiarmi, ma no, non sarei mai riuscito ad avvicinarla, e mai ci riuscii.

Fino a quella sera.

Non si può dire che presi coraggio, perché non me lo aspettavo. Semplicemente la stavo cercando con lo sguardo, come al solito, e sentii di colpo la sua risata beffarda alle mie spalle. Mi voltai di scatto: a pochi metri da me c’era lei, appoggiata ad una macchina, con in mano una bottiglia di Vodka, che baciava un tizio, che la palpava e la spingeva contro la macchina. Lei indossava dei sandali con il tacco da 15 cm e un vestitino turchese scosciato, scollato, e più che aderente al suo corpo sempre perfetto. Si lasciava fare tutto da quell’essere che valeva un decimo di me. E lei, palesemente, non era innamorata, era solo maledettamente ubriaca.

Mi alzai dal mio posto, senza dire niente ai miei compagni. Mi avvicinai ai due e sfoggiando il mio sorriso più educato dissi: “Signorina, mi scusi, avrei bisogno di lei un momento, è per un affare del bar”. Lei baciò il tizio, gli sussurò “ci vediamo dopo” e si girò per seguirmi. “Mi dica”. “Riguarda un veicolo parcheggiato qui vicino, signorina, non so se lei possa darmi una mano”. La osservavo ogni giorno; conoscevo la sua auto, ne sapevo a memoria la targa e sapevo dove parcheggiava a quel solito bar. Dietro al bar, in un vicoletto. La vedevo dubbiosa, le dissi il modello dell’auto e le si accese un lampo negli occhi profondi.

Svoltammo l’angolo.

Dando una spinta con la mano alla sua testa la slanciai verso il muro; lei sbatté il cranio, si girò malamente e cadde a terra. La tirai su per il collo, tenendola attaccata al muro, e accostai la bocca al suo orecchio.

“Tu… lurida… puttana… Ti ho amata così tanto… anni e anni senza dirti una parola… e tu poi una sera si scoli una bottiglia di Vodka… e ti fai toccare dal primo maiale che trovi. Ti stai sprecando… Sei così bella…”.

I suoi occhi blu erano spalancati, fissi nei miei. Le sue mani stringevano le mie, intorno al suo collo; era bellissima, calda e morbida… Le lacrime cominciarono scendere sulle mie gote.

“… Lo vedi, cosa mi hai fatto… Cosa mi stai facendo…?”.

Tenendole stretto il collo le sbattei di nuovo la testa contro il muro, forte, e lei scivolò a terra. Mi tastai le tasche, cercando le chiavi. Le tirai fuori dalla tasca posteriore; lei intanto tossiva, addossata alla parete. Attaccato al mazzo di chiavi avevo sempre avuto un coltellino svizzero; lo aprii piano, con gesti misurati. La presi di nuovo per il collo e la tirai su.

C’era silenzio, c’era solo il rumore del mare, e da lontano giungevano gli echi delle voci del bar. Fissai i miei occhi di ghiaccio nei suoi occhi d’oceano.

“Ti ho amata così tanto… Ti amo anche adesso, anche in questo momento… Io… ti amerò per sempre.”

La mia mano scattò contro il suo petto.

Il sangue scuro cominciò ad uscire a fiotti e a colarle sul seno prosperoso. Alle luci della sera quel fluido vitale sembrava viola, quasi blu, come le belle di notte di cui era piena ogni aiuola della città. Dalle sue labbra uscì un sospiro leggero, come il venticello di giugno.

La adagiai a terra, e mi sedetti accanto a lei. Da solo, allontanai il coltellino dal mio corpo e poi lo tirai con forza verso la pancia. La baciai, finalmente, e mi sdraiai sull’asfalto, accanto a lei, abbracciandola.

“Ora saremo insieme… per sempre…”.

Ora entrambi fissavamo le stelle d’Agosto sopra di noi, gli occhi vuoti, la pelle tiepida, le vesti bagnate del sangue di entrambi.

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