Il dottore

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Stanza bianca: un classico.

Sarebbe completamente bianca se non mi avessero concesso l’uso dei pennarelli.

La parete intorno alla porta della stanza è piena di segni. Per l’esattezza duemila novecento ottantotto segni rossi. Uso solo quel colore. Oramai me ne avranno dati una decina. Le infermiere continuano a cercare di convincermi ad usare altri colori, ma non voglio, voglio solo quel colore, posso usare SOLO quel colore.

È il dottore che ogni giorno mi ricorda di segnare sulla parete i giorni. È l’unico essere vivente che vedo oltre alle infermiere che mi portano da mangiare, se così si può chiamare quella roba che mi danno.

Questo dottore è sempre con me, mi sveglia il mattino e mi addormenta la sera. Spesso andiamo d’accordo, del resto è l’unico amico che ho, è l’unico che mi capisce.

Oggi è in ritardo, il suo camice bianco con macchie rosse come la mia stanza non si è fatto vedere. Ultimamente succede ogni volta che la sera prima mi danno da mangiare la zuppa.

Che fai PJ?

È il dottore! Che bello poter vedere qualcuno.

Sorrido cercando di individuare i suoi occhi dietro quegli occhiali spessi. Non li ho mai visti, ma devono certamente essere grandi, buoni e intelligenti.

-Niente, mi tengo occupato. Lei piuttosto quando è arrivato? Non l’ho sentita entrare.-

Ride. Mi mette sempre di buon umore vedere come la sua bocca si spalanca mostrando quella dentatura perfetta e sentire uscire fuori da essa una fragorosa risata. È contagiosa. Rido anche io.

Improvvisamente il dottore torna serio e mi chiede di stendere il braccio, lo esamina come al solito e sorride, ma quell'espressione felice dura poco. Avvicina il naso alla mia bocca e fiuta l’aria due volte.

Gli angoli della sua bocca precipitano all'ingiù. Le sue mani cominciano a fremere velocemente, come se per le vene gli passasse la corrente elettrica, non il sangue. L’angolo sinistro della bocca si contrae e si distende ritmicamente. Sento distintamente il suo sguardo su di me. I suoi occhi, certamente grandi e buoni mi stanno fissando con rabbia.

Hai mangiato di nuovo la zuppa, vero?

-Era la cena di ieri- Provo a rispondere abbassando gli occhi.

Cosa avevamo detto sulla zuppa?

-Avevo fame-

Cosa avevamo detto sulla zuppa?

-Mi avrebbero dato solo…-

Rispondi semplicemente alla domanda… Cosa avevamo detto?

Tengo gli occhi bassi. L’ho fatto arrabbiare di nuovo. Lo capisco dal suo modo di parlarmi. Non è arrabbiato, ma è inquietante, insistente, ripetitivo. Anche nei gesti lo è. Mi fa paura.

-Non la dovevo mangiare-

Esattamente.

-Però mi piace!- Dico timidamente.

Un ghigno si disegna sulla sua faccia. Allunga una mano guantata verso di me, si blocca improvvisamente e la ritira. Non mi ha mai toccato, neanche nelle visite. Si limita a guardare.

Questo è indifferente. C’è veleno lì, lo sai? Veleno per la mente!

-Ma...! Io sto bene!-

Rise di nuovo. Non era la solita risata, sta volta era macabra, profonda, quasi fosse stata prodotta dal fondo di un burrone.

Certo, certo! Lo credi adesso! Ma fra qualche tempo… vedrai! Comincerai a sentirti stanco, vulnerabile… Non ti fiderai nemmeno di me!

-È impossibile!-

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