Capitolo XXII

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«immaginavo di trovarti qui».

Non giunse nessuna risposta dalla rinsecchita creatura ancestrale, in piedi in perfetto equilibro sulla cima di un albero, i cui grandi ed inquietanti occhi rosso brillante osservavano un punto indefinito.

«non potendo andare sulla Luna era chiaro che ti saresti fatto vedere nel luogo dove, in questa situazione, la tua presenza potesse avere senso» continuò, nonostante il silenzio dell'altro «è indubbio che, per il principe, finire qui sia stata una bella sventura » concluse, con sospiro falsamente triste.

Dopo qualche altro istante di silenzio, la ripugnante creatura dagli occhi rossi iniziò ad emettere un acuto e penetrante stridio metallico che sarebbe risultato fastidioso a qualunque orecchio, avvolgendo al contempo le sottili ali deformi attorno al corpo, come volendo formare una crisalide. Già a quel punto non dava un bello spettacolo, ma peggiorò ulteriormente quando il bozzolo iniziò a muoversi come fosse infestato all'interno da gigantesche larve, e ad ingrossarsi velocemente.

Altri avrebbero provato paura o disgusto nell'osservare tale mutazione, ma per lei, ormai, la metamorfosi di Mothman era diventata uno spettacolo visto, rivisto e stravisto, al punto da riuscire a prevedere facilmente quando questa si sarebbe conclusa e spostarsi in tempo, evitando l'esplosione di quel liquido nero, viscido e disgustoso che sempre l'accompagnava.

«si direbbe che strisciare in giro per il mondo a banchettare delle umane miserie ti sia venuto a noia» fu la prima cosa che disse il "nuovo" Mothman, le cui fattezze, al momento, erano ben diverse dalla creatura orrenda e avvizzita di poco prima: essa, infatti, aveva lasciato il posto ad un uomo alto e molto atletico, dalla pelle completamente nera ricoperta parzialmente da una sorta di armatura con un "ché" da insetto, grandi ali iridescenti simili a quelle di una farfalla, ed una sorta di "collare" di soffici piume. A rimanere invariati erano stati soltanto i grandi occhi rossi, ora fissi sulla sua interlocutrice.

Che sorrise.

«la seconda guerra mondiale è finita da un bel po', e nonostante qualche fatto interessante qui e là gli umani non sono realmente sull'orlo della terza. Per cui, l'unica cosa che mi resta da fare è giocare con qualche spiritello».

«nonché venire qui a riempirmi di chiacchiere, sembrerebbe» disse Mothman, con una punta d'ironia.

L'Uomo Falena era estremamente antico, ne aveva viste troppe e, tra questo ed il proprio carattere in sé, non sarebbe riuscito a sentirsi inquieto neppure se avesse voluto farlo; ma la creatura che gli stava davanti era l'unica che, ogni tanto, riuscisse a risvegliare in lui la pallida ombra di un vaghissimo interesse.

Tanith era l'esponente di una razza ancestrale di donne serpenti siderali, le Ephemerides, le quali si nutrivano del dolore di ogni essere vivente nella galassia sin da tempi molto, molto, molto antecedenti la Golden Age. Le origini di quella specie erano sconosciute, così come in genere lo era l'esistenza stessa di quelle creature, di cui molti non sapevano neppure il nome. Al massimo, le Ephemerides venivano relegate a mere leggende e tetre fiabe dai popoli degli svariati pianeti in cui avevano sostato.

Mothman aveva fatto conoscenza con lei circa millecinquecento anni prima, e gli era bastata una breve occhiata per capire che quella donna serpente dalla lunghissima coda spessa e nera come l'inchiostro non era uno dei tanti immortali -per lui- imberbi che circolavano sul pianeta, e la sua supposizione si era dimostrata esatta: Tanith era, dopo lui stesso, l'entità più antica presente sulla Terra. Un essere nato in chissà quale angolo del cosmo che, dopo aver visitato mezza galassia o anche di più, aveva deciso di fermarsi proprio lì, in quel piccolo pianetucolo azzurro, insieme a due sue simili.

Che pochi mesi dopo aveva ucciso con le proprie mani.

«pensavo gradissi scambiare due parole con l'unico essere in tutto il globo che sia sempre realmente felice di vederti» replicò Tanith, per nulla indisposta dall'atteggiamento dell'Uomo Falena.

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