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Mi sto ostinando a restare nel mio stato di confusione da più di mezz'ora, senza avere la benché minima intenzione di lasciare che il mio cervello processi quanto appena successo.
Il vicolo lievemente illuminato, in cui fino a poco fa regnava un silenzio tombale- interrotto soltanto dalle voci dei tre uomini, ormai è un andirivieni di poliziotti in divisa e detective, tutti impegnati a stabilire le dinamiche dello scontro.

Jace ormai è stato portato in ospedale e, da quanto ho potuto apprendere dal continuo vociferare, non dovrebbe trovarsi in pericolo di vita, nonostante abbia perso un bel po' di sangue.

Ho colto con lo sguardo i due precisi istanti in cui le due pallottole si sono conficcate nella sua carne e, malgrado il mio stato di trance, mi rendo conto che quelle immagini non se ne andranno più dalla mia testa. E nemmeno il suono infernale provocato dallo sparo. Se solo lasciassi che il lume della ragione tornasse in me, probabilmente i miei pensieri diventerebbero semplicemente una sequenza di quelle stesse immagini e suoni che cerco disperatamente di eliminare dalla mia memoria. E non mi sento ancora pronta.

Fatto sta che la mia capacità di tenere relativamente vuota la testa è strettamente legata all'abbraccio caloroso di Clayton, a cui mi ci aggrappo come se fosse la mia àncora di salvezza. Ed è per questo che quando un detective gli chiede di seguirlo, mi sento improvvisamente come se fossi stata scaraventata in balia della sorte, senza la minima protezione, senza un qualsiasi piccolo scudo.
Le lacrime tornano ad offuscarmi la vista. Sembra che il mio unico modo di reagire di fronte a questa situazione sia frignare come un bambina a cui è stata negata una caramella.
Molto maturo da parte mia.

"Signorina, purtroppo devo chiederle di seguirmi alla centrale per una deposizione." Mi viene attirata l'attenzione da un giovane uomo, che se n'è rimasto pazientemente in silenzio per qualche minuto, mentre io ho esaurito le mie lacrime, seguendo Clayton con lo sguardo fino a vederlo sparire in una delle macchine della polizia.
"Oh, certo." Acconsento, tirando su col naso in un modo che amplifica la mia immagine di bambina smarrita.
"Ci penso io, James." Ci interrompe l'unica voce che in questo momento mi è familiare, anche se ormai dentro di me si è insinuata la consapevolezza che, in realtà, appartenga ad una persona totalmente estranea.
"Non puoi farlo, il tuo compito è appena finito." Controbatte il giovane detective, allargandosi il nodo della cravatta con fare alquanto nervoso.
"Ho detto che ci penso io, James." Ribadisce in tono pacato Justin, lasciando intendere, tuttavia, che non ha intenzione di ascoltare le parole del suo collega.
"Fai pure, ma l'interrogatorio lo facciamo insieme." Si arrende il suo collega, con un'aria esasperata. "E poi sarai tu a sopportare le ramanzine del capo."

Justin ignora accuratamente la minaccia velata presente nel tono di quest'ultimo e mi circonda la vita con un braccio, per poi costringermi, seppur in maniera delicata, a seguirlo verso la sua macchina, che poi scopro sia parcheggiata proprio all'inizio del vicolo. Segretamente mi chiedo come io possa non averlo notata quando ci sono letteralmente passata accanto, ma scaccio via i dubbi dalla testa, rendendomi conto che probabilmente in quel preciso istante ho preferito accordare la mia completa attenzione a Clayton, piuttosto che analizzare le macchine parcheggiate.

Ad ogni modo, trovarmi da sola con lui nel piccolo abitacolo, improvvisamente, si dimostra una fonte di ansia allo stato puro. Non sento affatto il bisogno di rivolgergli la parola, pur aver già pensato a qualche maniera poco carina in cui apostrofarlo, e l'unica cosa che posso fare per ammazzare il tempo è guardare fuori dal finestrino, mentre divento, piano piano, tutt'uno col sedile in pelle.

La cosa che più mi fa impazzire è che anche lui sembra totalmente intento a mantenere il silenzio. Non c'è alcuna traccia della sua intenzione di scusarsi per la quantità di bugie che mi ha raccontato. E ho la vaga impressione che ce ne siano state talmente tante che non riuscirei a contarle senza il suo stesso aiuto.
Ma d'altronde, sono propensa a pensare che di certo il suo cuore non si stia frantumando in silenzio, così come sta succedendo col mio. Quindi, perché dovrebbe sentire il bisogno di trovare immediatamente un modo per farsi perdonare? Mi pare di aver capito che stava semplicemente svolgendo il suo lavoro, e probabilmente gli basta questa consapevolezza per essere in pace con se stesso.

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