Capitolo 28. Disarmo

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Rimasi a fissare la porta buia e muta, contemplando il vuoto che si era lasciato dietro, impotente.

L'avevo perso davvero?

Scoppiai a piangere, con il cuore a pezzi. Era come se mi mancasse qualcosa, come se fosse stata amputata una parte di me. Mi sentivo incompleta. Vuota, appunto.

Ma non stavo piangendo per me, no: era per lui, in particolare perché sapevo quanto gli fosse costato bastonarmi con quelle parole. Sapevo che soffriva anche se non voleva ammetterlo. Stava gettando via la sua ultima occasione di essere felice, per me.

Non era giusto.

Avrei voluto raggiungerlo ma i singhiozzi non si fermavano e non sarei uscita così.

Non sarei uscita così? Che sciocca. Certo che sì! A cosa diamine sarebbe servita la dignità se stavo per perdere la mia vita?

Mi accorsi di essere caduta in ginocchio, quindi mi alzai ostinata, sorreggendomi a una sedia. Quando mi sentii abbastanza stabile, ignorando il tremore alle gambe, mi diressi a mia volta verso la porta. Ma proprio mentre stavo per sfiorarla, quella si aprì da sé.

No, non da sé.

Ci bastò uno sguardo: un lungo, comprensivo, triste sguardo. E il momento dopo eravamo già abbracciati.

Era di nuovo lui: di nuovo il mio Will.

Ripresi a singhiozzare. Mai mi aveva provocato un'emozione tale.

«Perdonami, amore mio», sospirò con voce strozzata, affondando il viso nei miei capelli. «È una bugia troppo grossa, non la reggo. Non la reggo. Non posso andarmene sapendo che ti ho ferito in questo modo. Non ne ho la forza». Sospirò. «Ma non voglio che tu venga a rischiare la vita per me».

Volevo rispondergli ma non riuscivo a placare il pianto, così continuò a scusarsi. Come se ce ne fosse stato bisogno!

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto. È colpa mia. Io ho permesso che questo accadesse. Io ho permesso che tu mi amassi. Scusami. Per tutto».

Seguì una breve pausa rotta dai miei singulti incontrollabili e dal suo respiro che mi accarezzava dolcemente la pelle del viso. Si allontanò un poco, e il dolore nello sguardo mi procurò l'ennesima fitta al petto.

«Io... volevo solo che non mi odiassi da subito», proseguì. «Volevo conoscerti e che anche tu mi conoscessi. Mi sono sentito solo per così tanto tempo...». Chiuse gli occhi. «Non che questo mi giustifichi, certo che no. Ma devi credermi...», disse a denti stretti, tornando a fondere lo sguardo con il mio, «...ho cercato di starti lontano. Ho cercato... E quando avevo pensato di aver aggiustato le cose, quando finalmente ero riuscito a lasciarti andare, tu eri là... Dopo quel che ti ho fatto, sei tornata da me: l'ultima persona al mondo che mi sarei aspettato di rincontrare. Da lì ho smesso di resisterti. Il desiderio di starti accanto mi ha vinto».

Mi spostò la ciocca ribelle dalla fronte con un gesto riverenziale. «Sono stato un dannato egoista. Non avrei mai voluto che ti accadesse una cosa simile. Perdonami».

Pensava che ce l'avessi con lui al punto di pentirmi del tempo trascorso assieme? Volevo domandarglielo ma ancora non riuscivo a smettere di piangere.

«Volevo passare ciò che mi rimaneva da vivere con te e allo stesso tempo che tu fossi felice, nient'altro. E lo vorrei ancora. Non sai quanto». Respiro profondo. «Non sai quanto».

Sarebbe morto in battaglia: continuava a ripetermelo. E se c'era qualcuno che poteva saperlo, quel qualcuno era lui.

Affondai il viso nella sua spalla, cercando di riprendermi per formulare una frase sensata ma contenere tutto ciò che stavo provando era impossibile. Mi abbandonai al suo caldo abbraccio salutare mentre mi cullava come aveva fatto tante di quelle volte in passato: così rassicurante, amorevole, dolcissimo... e pian piano, proprio come in passato, riuscì un po' a calmarmi.

Incredibile come, da quando ero arrivata, la persona che così a lungo avessi considerato mia nemica ci fosse sempre stata nel momento in cui ne avevo avuto più bisogno.

Finalmente, forse spinta dalla disperazione, ritrovai la voce e lo guardai dritto negli occhi. «Avresti dovuto dirmelo. Dovevi dirmelo!». Digrignai i denti, stringendo con rabbia i lembi del suo mantello prima di iniziare praticamente a urlare. «Ma cosa credevi, eh!? Cosa credevi!? Che mi sarei sentita meglio non sapendo la verità mentre tu soffrivi!? AVREI POTUTO AIUTARTI A PORTARE QUESTO PESO! Avrei potuto...».

Mi zittì nel modo più dolce e io mi arresi nell'attimo stesso del contatto, dimenticandomi all'istante di ciò che stavo per dirgli.

Il terrore di perderlo mi sopraffece ancora più violento e insieme ad esso la consapevolezza che l'indomani non avrei realmente più avuto la possibilità di riabbracciarlo, di stargli accanto e al di sopra di tutto sapere che stesse bene e al sicuro. Oltre a questo avevo il tormento che mi respingesse, che si allontanasse da me come aveva sempre fatto ogni volta che eravamo stati così vicini a superare il limite: avevo bisogno di lui. E lui di me.

Avevamo bisogno l'uno dell'altra.

Lo baciai con tutta la passione di cui ero capace, stringendolo, ignorando le lacrime che continuavano a scendermi copiose lungo le guance mentre ricambiava il bacio con altrettanta avidità.

Credevo che mi avrebbe fermata.

Ma non lo fece.

Oltre il tempo - Parte seconda - Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora