Capitolo 2. Stupore

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Mi concesse un altro momento per digerire ciò che avevo appena udito.

«John è il nome di tuo padre?». Faticavo a mantenere la voce ferma, il cuore batteva come un tamburo. Quante certezze ancora stavano per essere infrante?

«Sì».

«Il tuo nome non è nemmeno Uilleam?».

Si alzò per prendere un ramo secco lì vicino e scrisse qualcosa su un lembo di terra umida ai nostri piedi.

Mi sporsi per leggere la scritta.

«William... È il tuo vero nome?».

«Sì». Riprese posto accanto a me, apparentemente tranquillo.

Pensai che gli stesse bene. Mi piaceva. «È quello definitivo?».

Cosa? Come potevo fare dell'ironia in una situazione del genere?

Sembrò apprezzare molto. Sorrise sotto i baffetti corti. «Sì, è quello definitivo».

Che confusione. «Non capisco».

«Lo so. Risponderò alle tue domande».

«Perché tutto ciò?», chiesi confusa, «a quale scopo?».

Parlò lentamente. «Uilleam è un nome più... appropriato per questo luogo, per questo... tempo. Inoltre, se mai qualcuno poco gradito venisse a cercarmi... in questo modo sarebbe un po' più difficile trovarmi».

Eravamo appena all'inizio e già mi stavo perdendo.

«Non sono nato qui», aggiunse. «Non sono nemmeno cresciuto qui. Provengo da un luogo molto, molto lontano, dall'altra parte del mondo». Guardò dinnanzi a sé come se potesse vedere il posto di cui parlava, poi attese, scrutandomi pensoso. «Forse è meglio se tu fai le domande e io rispondo».

Gli chiesi la prima cosa che mi venne in mente. «Se è vero... perché adesso non sei là?».

«Perché non esiste ancora».

Non avevo la più pallida idea di come apparisse la mia faccia e nemmeno me ne preoccupai, ma da come mi osservava non doveva essere delle più serene.

«Il luogo da cui provieni... non esiste ancora?».

«Ti avevo detto che non sarebbe stato semplice».

Ammesso che non si stesse prendendo gioco di me, in cosa mi stavo andando a cacciare?

«Sei sicura di voler continuare?».

Pensai a quando mi fece una domanda simile, nel bosco, prima di portarmi a vedere il mare, e a come mi stesse lasciando di nuovo libera di scegliere.

Lentamente, annuii. Cercai di riordinare le idee.

«Torniamo alla freccia». Avremmo avuto tempo in seguito per approfondire. «Come hai fatto a fermarla?».

Sospirò sembrando contratto, preoccupato e dubbioso allo stesso tempo. Si passò le mani sul viso – un gesto che faceva effettivamente quando era teso per qualcosa – e si massaggiò la nuca. «Solleva un braccio», disse infine.

Altrettanto dubbiosa, eseguii.

«Come hai fatto a farlo?».

Che domanda era? «Non lo so. L'ho fatto e basta».

«È la stessa cosa che succede a me. Più o meno».

Aspettai che proseguisse, cercando di capire.

«Dipende da più cose... da come mi sento, da quanto io desideri spostare un certo oggetto o meno. Ma non basta immaginarlo, devo volerlo. Rivolse lo sguardo verso gli alberi dinanzi a noi. «Ad esempio ora sto immaginando l'intera foresta bruciare».

Rabbrividii.

«Ma non è ciò che voglio», precisò rassicurandomi con lo sguardo.

«Per fortuna», bisbigliai.

Dall'angolo delle labbra spuntò quel sorriso stiracchiato che mi piaceva tanto. Prese un'altra gran boccata d'aria.

«Inizialmente ero... praticamente fuori controllo. Mi c'è voluto molto allenamento per imparare a gestire il tutto. Ancora oggi ci sono volte in cui mi rimane difficile sollevare una foglia, in altre invece raderei al suolo...». Lasciò la frase in sospeso, studiando il mio volto. Forse stava cercando di non spaventarmi. «Dipende anche da altro ma, principalmente è legato a ciò che provo», concluse.

Mi domandai per l'ennesima volta se non stessi sognando. «Sei sempre stato così?».

«No. È ora che ti spieghi da dove provengono le mie cicatrici».

«Non dalle battaglie che hai combattuto?», chiesi titubante.

«La maggior parte sì... ma non queste», disse indicando i marcati segni diafani sul sopracciglio destro. Si alzò in piedi, voltandosi di spalle, e con mia sorpresa si liberò del mantello; dopodiché iniziò a slacciarsi la dalmatica...

Curiosità e desiderio si confusero. Difficile stabilire quale delle due fosse a prevalere.

Trattenni il respiro quando se la lasciò scivolare sopra la testa – inizialmente per il gesto in sé, poi per il numero spaventoso di sfregi chiari e scuri che gli ricoprivano il corpo. La spalla sinistra in particolare era martoriata. La cicatrice che risaltava più di tutte era là: grande, irregolare e violacea, con al centro un lungo solco delineato da segni di vecchie cuciture. Se la indicò.

«Nemmeno questa lo è», disse piatto.

Si voltò.

Dopo l'inevitabile stupore iniziale mi sforzai di mantenere un'espressione impassibile anche se, dentro di me, mi sentivo morire. Un dolore denso mi invase, così come la rabbia. Dio solo sapeva quanto aveva sofferto. Era una persona buona – adesso ne ero certa – non poteva esserselo meritato.

«Chi è stato?», domandai in un sussurro, cercando di controllare il tono di voce.

Si rivestì in silenzio, evidentemente meditabondo, e tornò al mio fianco. «Anch'io ho una storia da raccontare». Si inumidì le labbra, lo sguardo perso davanti a sé. «Anni fa, delle persone... hanno cercato di uccidermi».

Cercai di ignorare il brivido che quell'affermazione mi aveva provocato, inutilmente.

«Come diamine faccio a spiegartelo in maniera semplice?», mormorò.

«Perché volevano ucciderti?».

«Hai sete? Vuoi dell'acqua?», chiese di punto in bianco, indicando la bisaccia che aveva appoggiato al tronco sulla nostra destra.

Cercai di intuire i suoi pensieri. Voleva forse cambiare discorso?

«No, grazie».

Continuava a guardarmi, sembrava in attesa. Fece cenno di voltarmi e così feci.

Qualcosa mi coprì la visuale e sobbalzai, arretrando fino al limitare della roccia. Poi rimasi esterrefatta.

Oltre il tempo - Parte seconda - Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora