Odisseo

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Aristomaco sedeva su un masso, sotto un albero molto grande, da cui estivi e caldi raggi di Sole fuoriuscivano e si posavano leggeri sulla pelle di Aristomaco.
Dei bambini si rincorrevano tra di loro schiamazzando, una madre con una mano posata sui fianchi li intimava di fare i bravi, mentre dei gabbiani sorvolano un mare rugoso a causa delle onde.
Ariatomaco non poteva vedere nulla di tutto ciò, poteva solamente sentire il calore dei raggi, le urla dei bambini, la preoccupazione nella voce di quella madre, i versi lontani dei gabbiani e il mormorio del mare. In quest' orchestra di suoni discordanti riconobbe i passi di suo fratello, che lo chiamava per nome e lo aiutava a tirarsi in piedi.
Aristomaco si lasciò guidare più stanco che mai, senza proferire parola, sorreggendosi al braccio di suo fratello per cadere in quell' oscurità, che lo attanagliava escludendolo da qualsiasi cosa. Non era nato cieco, lo era diventato all' età di 10 anni più o meno ed erano stati i suoi occhi a ingannare lui e loro stessi. Era figlio di un uomo molto ricco, che possedeva terre in abbondanza e che allevava api per produrre un miele molto dolce. Le arnie erano posizionate su un' altura, che da un lato confinava con terreni colmi di viti e dall' alto si tuffava da una vertiginosa scogliera sassosa dritta nel mare azzurro.
Una mattina, Aristomaco sedeva tranquillo su quell' altura e osservava in lontananza il confine tra il cielo e il mare, l' orizzonte.
Con le gambe incrociate e il sole gli rendeva dorata la pelle, si chiedeva quanto sarebbe partito. Nella sua mente un aedo gli cantava dei viaggi di Odisseo e per Aristomaco era come se stesse narrando tutti i suoi sogni.
Conosceva le gesta di Odisseo a memoria, perché sarebbero state l' itinerario delle sue avventure.
Delle vele bianche sembravano danzare in lontananza, disegnando ampi cerchi nel mare. Aristomaco si alzò in piedi, incuriosito dai disegni che coloravano il bianco delle vele, si diresse verso un albero, il più alto e si arrampicò come uno scoiattolo. Raggiunse la cima dell' albero, da lì poteva vedere il lontanissimo tetto del tempio, gli uomini piccoli come formiche che si intrattenevano nell' agorà, gli schiavi di suo padre che aravano i campi e badavano alle mandrie.
Aristomaco rivolse il suo sguardo alle vele, ma ne rimase deluso: erano già sparite, si riusciva a distinguere solamente il legno con cui erano costruite. La più grande delusione che poteva solcare il suo cuore lasciandovi una impetuosa scia di amarezza era una mancata conoscenza.
Egli era un essere curioso, interessato a tutto ciò che si potesse conoscere, attratto dal sapere; era per questa ragione che aveva occhi rapidi e guizzanti, pronti a seguire qualsiasi cosa. D' altra parte per i Greci vi era un unico verbo per indicare l' azione di vedere e quella di conoscere.
Ancora molto provato dalle vele fuggenti, Aristomaco sfidando le vertigini scese da quell' albero e si avvicinò alle arnie. Lì lo accolse il ronzio minaccioso delle api guardiane.
Aristomaco aveva costantemente il terrore di essere punto, ma osservare e conoscere il mondo di quei piccoli insetti lo interessava molto. Individuò la regina e la seguì con gli occhi.
La regina era colei che lì dentro comandava tutti e quei tutti erano i suoi stessi figli, un po' come nell' Olimpo e un po' come nella sua famiglia.
Suo padre aveva avuto una prole molto abbondante, Aristomaco era il settimo di più venti figli. Ovviamente, non erano stati concepiti e generati dalla stessa donna: con sua moglie ne aveva messi al mondo appena cinque, tutti gli altri erano stati concepiti e partoriti da schiave e prostitute. Aristomaco era il frutto di uno stupro ai danni di una giovane sacerdotessa, che suo padre aveva violentato ubriaco marcio dopo una processione, poi aveva risarcito il dio del tempio con ingenti doni e finanziando gli spettacoli cittadini dell' anno successivo.
Aristomaco continuò a guardare le api, poi all' improvviso i suoi vennero catturati da un' altra cosa, una farfalla bellissima, con ali rosse e luminose. Non ne aveva mai vista una simile, dunque non la conosceva affatto. Si mise a inseguirla, gli occhi fissi sulle sfumature bluastre delle sue enormi ali. Di tanto in tanto questa farfalla così sconosciuta e così bella si posava su qualche fiore, ma non appena Aristomaco era a pochi passi da lei, sbatteva delicatamente le ali e andava più in là. Aristomaco porse il braccio verso di essa, ora era sopra di lui, fece un balzo in avanti, le sue dita la sfiorarono, i suoi occhi la ghermirono, il vuoto sotto i suoi piedi lo rapì.
Fu ritrovato dopo poche ore, miracolosamente illeso, seduto su una roccia, benedetto dalle onde del mare, ma cieco per sempre. Suo padre corse al tempio di Poseidone e versò lauti doni al dio del mare, che aveva soccorso suo figlio salvandogli la vita in cambio della vista.
Da allora, tutti considerarono Aristomaco un protetto dagli dei, che lo avevano chiamato a sé donandogli una vista molto più lungimirante di quella degli altri.
Aristomaco non si fece mai persuadere però. Divenne un poeta e un aedo, aiutato da uno dei suoi innumerevoli fratelli vagò per tutta la Grecia raccontando le imprese di Achille, di Aiace e di Odisseo. Era un cadavere però, un cadavere che aveva chiuso gli occhi per sempre e che aveva perso il nutrimento della sua anima: la conoscenza.
Camminando sbilenco accanto a suo fratello, Aristomaco credette di essere sul punto di morire ormai anche biologicamente. Era stufo di quella vita, di viaggiare in lungo e in largo restando però nel buio, voleva farla finita una volta per tutte, come aceva fatto suo padre calandosi una lunga spada nel ventre.
Suo fratello gli segnalò la presenza di alcuni gradini, ma Aristomaco cadde ugualmente a terra, la sua guancia sbatté contro il marmo e prese a sanguinare.
<<Non è successo nulla>> Lo tranquillizzò suo fratello, aiutandolo a mettersi in piedi.
Aristomaco tacque e si fece condurre in una sala, che doveva essere molto gremita e dove i commensali gozzovigliavano chiassosamente con cibo, fiumi di vino e flautiste.
<<SILENZIO! SILENZIO!>> Urlò una voce roca <<È arrivato Aristomaco, l' aedo più illustre di tutta la Grecia>>.
Aristomaco immaginò che dovesse essere il proprietario di casa, sorrise appena e iniziò a decantare i versi sfiorando le corde dell' arpa. Era davvero il più illustre e il migliore, infatti correva voce che persino i singhiozzi commossi di chi lo ascoltava tacevano per non disturbare il suo canto.
Quando ebbe finito, ricevette da tutti sentiti ringraziamenti e complimenti e dal proprietario di casa ceste traboccanti di regali. Con suo fratello procedette verso la nave, che li avrebbe riportati a casa. Salparono verso il tramonto e il fratello di Aristomaco lo portò in cabina, dove si addormentò subito dopo.
Aristomaco restò sveglio, la decisione di affrettare la sua inutile e sterile esistenza si materializzava in lui sempre più velocemente e i suoi passi lo guidarono verso la prua della nave, dritto verso la sua agognata fine.
Afferrò con le mani il legno della nave, assaporò l' aria salata e il vento che lo schiaffeggiava con gocce d' acqua marina. Si arrampicò, ma restò come sospeso in un limbo, con una gamba alzata, arrestato da una voce melodiosa, che si propagò attorno a lui diventando un coro.
Immaginò le sirene sotto la prua della nave, che lo attendevano con la loro bellezza ingannatrice, bellezza che mai Aristomaco avrebbe potuto ammirare.
Gli venne da ridere al pensiero di quelle sirene, che si illudevano di attirarlo con il loro fascino, quando in realtà Aristomaco neppure poteva scorgerle e andava incontro ai loro inganni solamente per farla finita.
<<Sono vostro!>> Le disse sbeffeggiandole e con un salto atletico si tuffò tra le onde.
Delle mani si chiusero sulle sue, sentì il suo corpo essere trascinato verso il cuore del mare, denti famelici protendersi verso le sue carni. Poi, un urlo squarciò il silenzio immutabile dell' acqua, fu liberato da qualsiasi cosa e una spinta lo sputò fuori dal mare.
Il suo corpo rotolò violentemente sulla sabbia, poi qualcosa attutì quei movimenti e Aristomaco si ritrovò su una spiaggia a pancia in giù, con gli occhi spalancati su una miriade di stelle, che però non potevano vedere.
<<Da qui il panorama è stupendo>> Irruppe una voce maschile, molto bassa <<Il vento si è placato, pertanto ora vi sono solamente onde molto lievi e le stelle che si riflettono sulla superficie sembra che si muovano>>.
<<Puoi anche fermarti qui. Non vedo nulla e non sarà il tuo stupido racconto a farmi immaginare ciò che sta dinanzi a me e che mi sto perdendo>> Si difese Aristomaco.
Chi aveva parlato tacque, sembrava essersi offeso, ma riprese a parlare molto presto <<Allora farò in modo che tu non abbia bisogno di immaginare proprio nulla>>.
Aristomaco sentì qualcosa che penetrava nel suo polso, poi delle gocce piovese di sangue simile a quelle della pioggia caddero tra le sue labbra dischiuse. Passarono pochi minuti e un tante stelle puntinarono l' oscurità. Un forte vento scosse nuovamente il mare, le stelle tremolarono restando a galla sulla superficie. Una mano accarezzò la nuca di Aristomaco. Apparteneva ad un ragazzo, che sembrava giovanissimo, aveva lunghi capelli biondi e ondulati, occhi verdi e un fisico muscoloso, non nascosto da alcun indumento.
<<Sei un dio?>> Gli domandò Aristomaco.
Quel ragazzo che effettivamente sembrava Apollo, gli si avvicinò con le labbra e con parole che parevano avere le ali gli rispose <<Ora lo sei anche tu>>.




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