"Parlo di quella solitudine che sei con gli altri, tutti ti guardano, ma nessuno ti vede; tutti ti sentono, ma nessuno ti ascolta. Potresti dire che vorresti sparire, nessuno capirebbe."
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Isabelle, a volte, si sentiva così sola.
Le capitava, certi giorni, di sentirsi come se nessuno la capisse. Una parte di lei pregava che arrivasse qualcuno e senza bisogno che lei spigasse, le dicesse tutto quello che aveva bisogno di sentirsi dire, le aprisse gli occhi, la confortasse, la capisse.
Non fraintendiamoci, Isabelle era un'amante della solitudine. Le piaceva stare per conto suo, lontano da tutti, perché tutti e chiunque prima o poi ti stancano. Il silenzio e la solitudine erano le uniche cose che realmente riuscivano a calmarla; quando capitava che il mondo sembrava avercela con lei, le bastava barricarsi in casa, lontano da ogni forma di sofferenza, tacere e chiudere gli occhi. Era come una sorta di anestesia, la sua mente per un po' riusciva a spegnersi grazie al silenzio. Anche quando stava in giro con gli amici, certe volte si isolava dal resto del gruppo, quando magari ciò di cui parlavano non le andava giù o non le interessava, perché era meglio la solitudine che certe stronzate.
Eppure, nelle ultime settimane, non riusciva a starci sola, aveva bisogno di qualcuno che le stesse affianco; non proprio di qualcuno in generale, ma qualcuno nello specifico.
Generalmente era Harry che andava da lei quando la vedeva isolarsi. Era lui che le si metteva accanto e le distruggeva quella quiete o le faceva compagnia in quella solitudine. Erano due i casi: o lei lo odiava perché avrebbe preferito averlo lontano, perché magari era proprio lui il motivo per cui andava via; o lo amava perché lui che restava da solo con lei e poi magari la cullava pure con carezze e coccole, era la cosa migliore che le potesse capitare.
In entrambi i casi, sia che lo odiasse, sia che lo amasse, non gli chiedeva mai di andare e nemmeno di restare. Lui sapeva anche quando lei lo stava odiando, eppure restava lì, a farsi odiare, a vederla non rivolgergli la parola, semplicemente perché Harry non era bravo a lasciarla andare, non aveva mai saputo farlo. Anche quando avrebbe dovuto, Harry si ostinava a tenerla con sé.
Egoista? Forse.
Ostinato? Molto.
Innamorato? Probabile.Quel pomeriggio era uno di quelli in cui Isabelle stava odiando quella sensazione del sentirsi tanto sola. Cercate di capire la solitudine che intendo, però. Parlo di quella che sei con gli altri, tutti ti guardano, ma nessuno ti vede; tutti ti sentono, ma nessuno ti ascolta. Potresti dire che vorresti sparire, nessuno capirebbe.
Era questa la solitudine che Isabelle odiava.
Proprio come in quel pomeriggio.
Aveva voglia di piangere, di sparire, di scavarsi un buco sotto la terra e restarci fino alla fine dei suoi giorni.
Ma nessuno lo capiva. Nichole non lo capiva, Manuel non lo capiva; Ronnie, Simon e Heaven non lo capivano. E Harry non c'era.
Ciò che l'aveva ridotta così, che l'aveva buttata a terra e le aveva messo i piedi in faccia, riguardava ancora sua madre.
Si erano incontrate per caso qualche giorno prima in un supermercato, ma sua madre non era andata via senza rivolgerle parola come Isabelle aveva sperato, ma era rimasta lì a scongiurarla di parlare.
«Ti prego, Isabelle. Ho bisogno di parlarti», le aveva detto.
Isabelle non era mai stata una ragazza cattiva, non era mai stata capace di dire di no, nonostante fosse arrabbiata, furiosa e delusa.
Erano ferme davanti al supermercato, entrambe con le mani strette alle cinghie delle loro borse; ma il peso che portavano sulle spalle era molto più grande di quelle stupide borse.
Isabelle attese in silenzio che sua madre le dicesse ciò che aveva da dirle, mentre però la sua pazienza lentamente scivolava via. Non ce la faceva, sentiva di non potercela fare. Comunque sarebbero andate le cose, sapeva che ne sarebbe uscita distrutta.
Scusa, per certi errori non basta.
«So che non ci sono spiegazioni per quello che ho fatto», disse finalmente Cassandra.
Isabelle scosse la testa.
Non esistevano assolutamente spiegazioni. I figli non si abbandonano così, i figli non si abbandonano mai.
«Ma ti prego, ti scongiuro di concedermi la possibilità di recuperare», la supplicò, cercando di prendere le mani tra le sue.
Isabelle si scansò da quel tocco.
«Sei sempre mia figlia» sussurrò allora Cassandra, con le lacrime agli occhi.
Lacrime di asino, pensò Isabelle.
Non riusciva a crederle, non riusciva ad accettarlo; si rifiutava di pensare che sua madre avesse finalmente scelto sua figlia a qualsiasi altra cosa.
«Non sono più tua figlia, ho smesso di esserlo nell'istante in cui hai scelto di abbandonarmi», ringhiò a denti stretti.
Non l'avrebbe mai perdonata, era inutile pensarci e sperarci. Tutte stronzate, tutte illusioni.
Un cuore a pezzi difficilmente ritorna in sesto.
«Non è vero. Sei sempre sangue del mio sangue.»
«No!» alzò la voce.
Poi si ricordò che si trovavano davanti ad un supermercato, dove le persone entravano ed uscivano, dove tutti le guardavano e si domandavano cosa stesse accadendo. Così si ricompose e lentamente si avvicinò ancora a Cassandra, rivolgendole uno sguardo bruciante.
«Io non sono più niente per te», disse lentamente, scandendo per bene ogni singola parola.
Voleva che lei sentisse; sentisse ed ascoltasse che ogni legame tra di loro si era completamente distrutto e frantumato.
«Non dire così. Ti prego, pensaci...» sua madre quasi pianse.
Isabelle scosse il capo, voltandole le spalle ed andando via senza dire più nient'altro. Non che avesse poi molto altro da dirle.
Ci pensò però, ci pensò molto e per giorni; sapeva che quell'incontro le avrebbe sconvolto la vita, sapeva che non poteva semplicemente fare finta che sua madre non ci stesse davvero provando, che fosse tornata per lei. Non poteva e forse, infondo infondo, neanche voleva.
Per questo in quegli ultimi giorni si sentiva così sola: la solitudine le era piaciuta fin quando non aveva realizzato la causa di questa.
L'abbandono di una madre, il rifiuto di un padre.
La solitudine.
E quindi si guardava spesso intorno cercando un appoggio, cercando un appiglio e l'unico che sempre trovava era Harry.
Pure quel pomeriggio, seduta in disparte, poco più lontana dagli altri, in quel parco, fingendo di studiare, fingendo di non voler essere disturbata, fingendo che la fisica quantistica fosse più interessante di quanto se ne sentisse parlare in giro. Ma poi si perdeva, alzava gli occhi e guardava chi le stava attorno, fingeva qualche sorriso, riabbassava gli occhi e tra le parole di quel libro cercava di capirci qualcosa, cercava una soluzione, una distrazione. Ma non bastava. Nella mente sentiva più forte le parole di sua madre che quelle che l'insegnante, per tutta quella mattina, aveva ripetuto a lezione. Persino dai suoi appunti si poteva capire quanto fosse stata sconnessa quel giorno: privi di un senso, frasi sfatte e numeri a caso.
Quella non era sicuramente una buona giornata.
Poi sentì Nichole parlare, con una persona la cui voce lei conosceva più che bene.
«Dov'è Isabelle?»
«Laggiù, sta studiando», rispose l'amica.
Isabelle non alzò lo sguardò, ma riuscì a sentirlo arrivare. La sua presenza era evidente, si sentiva; lei lo sentiva.
Attese che le dicesse qualcosa, senza allontanare gli occhi dal libro. Sapeva di aver bisogno di lui, ma non sapeva se fosse pronta a guardarlo, a dargli delle spiegazioni perché Harry non l'avrebbe lasciata andare, non vedendola tanto triste e desolata. Lui aveva l'assurda capacità di insistere fino a farla scoppiare, fino a farla parlare.
«Non mi saluti? Guarda che mi offendo», le disse.
Isabelle strinse la penna tra le dita, alzando finalmente gli occhi. Ad Harry bastò guardarla pochi secondi per capire che Isabelle non voleva scherzare, che qualcosa non andava. Allora, senza dire più nulla riguardo ad uno stupido saluto, le si sedette accanto.
Isabelle fissò dritto davanti a sé.
Perché sei qui? Perché vuoi provare a capirmi? Tanto nessuno lo fa, nessuno ci riesce. Pensò.
«Che studi?»
Appoggiò il mento sulla spalla della ragazza, aspettando una risposta in silenzio.
Isabelle si beò della tenerezza di Harry, nonostante non gli disse nulla al riguardo; troppo distante per confessare quell'affetto, quel piacere.
«Fisica quantistica», sussurrò.
Davanti ai due ragazzi, che stavano così vicini, ma al tempo stesso tanto lontani, la gente passava e si guardava attorno, e li guardava; le persone portavano avanti la loro vita, e poi si fermavano a lanciare un'occhiata a loro due, che seduti l'uno accanto all'altro sembravano quasi innamorati: Harry che la guardava come non aveva mai guardato nessuno, Isabelle che nel tacere faceva oro della presenza costante di quel ragazzo.
Dopo un po' lei sospirò.
«Cosa c'è che non va?» le domandò Harry.
Accarezzò il suo braccio con i polpastrelli delle dita, ma nessun altro contatto vi fu tra di loro all'infuori di quello.
«Niente» rispose Isabelle, borbottando.
Restò a fissare il vuoto davanti a se; nella sua testa viaggiarono milioni di immagini, parole. Eppure, il suo corpo sembrava richiamare il tocco di Harry, perché la sua mano si spinse fino a sfiorare quella del ragazzo al suo fianco. Lei ne aveva bisogno.
«Questa non è di certo la tua faccia da "niente".»
Le si fece più vicino, con le loro gambe che si toccavano. Ad Isabelle salì un magone in gola e si sorprese ancora della capacità di Harry di capirla tanto in fretta. Ma non voleva parlarne, non ne aveva affatto la voglia, o la forza. Fatto sta che non disse nulla al riguardo del suo pessimo e malinconico umore; si limitò a voltarsi per guardarlo meglio negli occhi.
«Mi abbracci, per favore?»
La voce di Isabelle un sussurro che solo lui, così vicino a lei, avrebbe potuto sentire.
«Ma certo che ti abbraccio, piccoletta, certo.»
E allora le braccia di Harry strinsero forte il corpo fragile e piccolo di Isabelle, confortandola ed accarezzandola.
Quei due avrebbero potuto uccidersi, o salvarsi, come nessuno avrebbe mai potuto fare. Ed in quell'istante, Harry stava salvando lei, la stava proteggendo e sorreggendo dal cadere. Perché lei, inevitabilmente, circondata da un calore che si scoprì ad amare così follemente, non riuscì a non piangere e scoppiò in un fiume di lacrime. Harry la strinse più forte.
«No, no, non piangere, ti prego.»
Le afferrò saldamente il viso tra le mani, puntando gli occhi nei suoi con la fronte corrugata. Isabelle non si oppose, ma poche lacrime continuarono a solcarle il viso pallido e triste. Harry le baciò uno zigomo, con il cuore nel petto che ad ogni lacrima di Isabelle gli si stringeva.
«Mi distrugge vederti così e non sapere neanche il perché. Smettila, ti prego, basta», borbottò, abbattuto.
Odiava vederla così e sentirsi impotente; odiava non poter fare niente per rivedere quel sorriso che generalmente abbelliva il volto di quella ragazza. Ma Harry non sapeva che ad Isabelle bastava anche solo la sua presenza per stare meglio.
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Il rumore del silenzio [HS]
FanfictionE tacque. Tacque i suoi sentimenti. Tacque il suo amore. Restando in silenzio, un silenzio che però faceva rumore. Il rumore di un amore che nessuno ascolta, che nessuno vuol capire, che nessuno è capace di sentire. Smisero di guardarsi, ma non smis...