"Pensò che non gli importava, di nient'altro. Che lì ci stava bene, che quello era il suo posto."
-Si erano date appuntamento in un bar frequentato da poca gente. Isabelle, in questi casi, odiava la folla, odiava essere circondata da persone e persone, tutte quelle che poi di lei, della sua storia, di sua madre, non conoscevano nulla. Odiava la sensazione di mille occhi addosso e nessuno di questi in grado di vederla per davvero.
Per questo, il tavolo che aveva scelto era distante, nascosto anche dai pochi occhi presenti in quel posto.
Aspettava seduta, con i gomiti appoggiati sul tavolo, il menù davanti a lei, l'ansia a divorarle lo stomaco. Non sapeva cosa aspettarsi da quell'incontro, non sapeva se stesse facendo la giusta scelta, o se avrebbe semplicemente dovuto lasciar perdere tutto e tornarsene a casa, dove nessuno avrebbe mai potuto ferirla. Una parte di sé comunque le suggeriva che quello non era un errore e che stava facendo la giusta scelta.
Cercò a quel punto di rilassarsi, fin quando non le venne in mente una buona idea per calmare le sue ansie. Tirò fuori il cellulare dalla tasca del suo giubbotto per poi comporre il numero di Harry ed inviare la chiamata.
«Pronto?» rispose pochi secondi dopo, giusto appena il secondo squillo.
Sembrava quasi che attendesse quella chiamata da tutta una vita.
«Ehi, Harry», sussurrò Isabelle.
«Ciao, bellissima.»
La ragazza sorrise a quelle parole, d'altronde non c'era motivo di nascondere che fosse felice di sentirlo. E lui, nonostante quel sorriso non potesse vederlo, però riusciva a percepirlo e per questa ragione sorrise anche lui.
Ci sono legami che non si possono distruggere se non da coloro stessi che li hanno creati. Ecco, il loro era un legame del genere. Niente avrebbe potuto infrangerlo, né il tempo, né le persone, né nient'altro più. Solo Isabelle e solo Harry avevano la capacità di mettere fine e di distruggere quel rapporto, ma nessuno dei due avrebbe mai voluto, non intenzionalmente almeno.
«Stavi facendo qualcosa?»
«No, in realtà ero semplicemente seduto sul divano», mentì.
Harry stava studiando, o almeno ci provava, nonostante il suo cervello non volesse collaborare ed in qualche modo riuscisse sempre a collegare qualsiasi parola, o argomento con il viso della ragazza con cui stava parlando al telefono. Quella mattina, aprendo il rullino delle foto del suo cellulare, si era accorto di una di queste in particolare, una foto che si erano scattati poche sere prima in discoteca. Era rimasto a fissarla, incantato per tutto il tempo, senza riuscire più a togliersela dalla testa. C'era lei, che con il suo bellissimo vestito di velluto bordeaux, stringeva un braccio attorno al suo collo, lo sguardo serio e rivolto allo schermo del cellulare, i capelli a ricaderle sulle spalle e a contornare la sua scollatura; Harry invece, era rivolto a lei, con il naso appoggiato sul suo mento e le labbra sul suo collo; sembrava proprio gli stesse lasciando un bacio, o forse più di uno, non ricordava esattamente quel momento, non ricordava nemmeno quando l'avevano scattata quella foto, in quale parte della serata. C'erano altre cose che però ricordava, anche con molta accuratezza: tutti i pensieri inopportuni, il modo in cui quel vestito le stava dannatamente bene, le sue gambe morbide che aveva sfiorato poi durante la notte mettendola a letto, le carezze, le mani delicate della ragazza a grattarle la nuca, i baci sul collo, il cuore che aveva battuto per tutto il tempo come un matto completo.
Harry capiva che le cose stavano cambiando, che non poteva essere lo stesso di sempre, non più e non con lei. Harry capiva che quella ragazza stava diventando un estremo pericolo per la sua sanità mentale, ma non gli importava proprio un bel niente. Stava diventando matto con tutto il piacere di diventarci, per lei e per quello che era in grado di fargli provare. Eppure faticava ancora ad ammettere a sé stesso che forse non riusciva a guardare più Isabelle soltanto come un'amica.
«Come mai hai chiamato?»
«Sono al bar e sto aspettando mia madre», disse Isabelle di getto.
Le tremavano persino le mani a causa dell'ansia, lei odiava aspettare, ma puntualmente si ritrovava a farlo.
«Hai deciso di parlarci, alla fine?»
Lei annuì con il capo, consapevole che lui non avrebbe potuto vederla, ma sapevano entrambi che le parole non servivano. Cosa c'era da dire? Da spiegare, o da giustificare? Niente. Era soltanto lei che avrebbe voluto ritrovare una parte di sé stessa che non aveva mai effettivamente conosciuto, quella parte legata a quella donna di cui non sapeva nulla, ma alla quale, in qualche strano modo, si sentiva connessa.
Forse era per questo che non riusciva a staccarsi dalla testa il pensiero di tenerla lontana; lei quella donna voleva conoscerla e sapere se ne valeva la pena. In caso contrario, sarebbe tornata alla sua vita, avrebbe fatto finta di non averla mai incontrata, di non averci mai parlato; e poi, avrebbe trovato un modo per colmare quel vuoto.
«Andrà bene, piccoletta. Vedrai», la rassicurò Harry.
E allora Isabelle ringraziò il cielo per avergli fatto incontrare proprio lui. Era di quello che aveva bisogno, solo qualche piccola rassicurazione.
«Grazie, Harry» accennò un sorriso.
Poi il respiro le si mozzò in gola ed un buco le si aprì nello stomaco. Sua madre era arrivata e la guardava aprire le porte di vetro di quel bar e poi dirigersi dritta e spedita verso di lei. Cassandra non voleva perdere tempo, Cassandra era decisa a chiedere scusa a sua figlia, a supplicarla, se necessario, per un posto nella sua vita.
«Scusami, Harry, è arrivata. Ti devo lasciare», disse allora Isabelle.
Tutti quei grazie che si era preparata a dire al ragazzo, tutte quelle parole le rimasero incastrate tra i denti e la lingua; adesso, aveva altro a cui rivolgersi.
«Va bene, ci sentiamo»
La delusione udibile dal tono di Harry.
Cassandra si accomodò davanti a lei e Isabelle la guardò bene. Per la prima volta, si accorse di quanto si somigliassero. Avevano gli stessi occhi, le stesse pieghe sul viso, con la sola differenza che quelle di Cassandra erano più scavate rispetto a quelle sul viso giovane ed ingenuo della ragazza.
Si guardarono per un po', senza dirsi nulla. Entrambe non sapevano da dove iniziare, che cosa dire, quali fossero le parole corrette per non distruggere definitivamente quel rapporto già abbastanza frammentato. Si trovavano come in equilibrio precario su un filo: al primo passo falso, una delle due sarebbe caduta. Il problema stava nel fatto che mai nessuna delle due era stata una brava equilibrista e quindi rischiavano di farsi male entrambe.
Poi, fu sua madre a distruggere quel silenzio.
«Come stai?»
Come stai? Una semplice domanda.
Ma Isabelle non sapeva bene come rispondere.
Erano giorni che ci pensava, giorni che non capiva, giorni che non riusciva a capacitarsi del perché tutto d'un tratto sentisse la necessità di avere sua madre nella sua vita. Era cresciuta da sola, si era sempre data da fare, senza mai aver bisogno di qualcuno; adesso, sentire il bisogno di una madre le sembrava persino strano. Ma forse era semplicemente perché quella mancanza se l'era sempre portata dietro senza neanche rendersene conto.
«Non bene, non male», rispose allora.
Non bene perché ho capito che mi manchi, non male perché ho vissuto anni senza di te, so che posso continuare a farcela. Pensò Isabelle dopo aver risposto.
Sua madre annuì, ma non le chiese spiegazioni. Sapeva che la risposta sarebbe stata troppo intima e personale per esserle concessa. Isabelle ne fu felice, perché anche lei sapeva che infondo non le avrebbe detto la verità.
«Io credo di aver bisogno di sapere tutto, ogni singola cosa, delle spiegazioni. Non avrò mai pace con me stessa, né tantomeno con te fino a quando non saprò il perché che ti ha spinta a fuggire e a tornare adesso», a quel punto la voce di Isabelle era bassa, ma decisa. Non era mai stata tanto sicura in vita sua. Non aveva più dubbi, era pronta a sapere.
Cassandra si mosse a disagio sulla sedia, deglutendo. Da dove avrebbe potuto iniziare? Quali parole avrebbe dovuto usare? Avrebbe dovuto mentire? O aprire il cuore ed essere sincera una volta per tutte con quella ragazza che le era davanti?
Isabelle percepì il disagio della donna, per cui decise di riscaldare un po' quella gelida atmosfera.
«Ordiniamo qualcosa prima», le regalò persino un piccolo sorriso.
Così chiamarono il cameriere ed entrambe scelsero un caffè caldo e lungo e soltanto dopo che questo fu posato dinanzi a loro, capirono che era arrivato il momento.
«Avevo paura», le voce di Cassandra tremò.
Aveva paura allora, ne aveva ancora.
«Non ero mai stata pronta ad avere un figlio, ero così giovane, così immatura e con tuo padre non è mai stato vero amore. Io non ero felice, non lo ero affatto. Non volevo vivere in quel modo.»
«E adesso?» le chiese, Isabelle, «Adesso sei felice?»
E adesso? Adesso sorridi? Adesso ti sei innamorata? Adesso hai un marito da amare e dei figli da vivere?
Isabelle non era arrabbiata, voleva solo sapere.
«Adesso ho una famiglia, un compagno con cui convivo, due figli», rispose Cassandra.
Isabelle deglutì.
«Dopo essere andata via ho viaggiato, sono stata a Parigi, in Giappone, in Italia. Cercavo me stessa, il mio posto nel mondo, ma poi ho trovato lui. Si chiama Giorgio, è italiano, ci siamo trasferiti lì, a Roma.»
La donna si ricordò del giorno in cui conobbe quell'uomo e sorrise imbarazzata; non aveva paura di parlarne, ciò che aveva trovato in lui, non lo aveva mai trovato in nessun altro, né tantomeno nel padre di Isabelle. Era lui il suo posto nel mondo, non doveva più cercare.
«Abbiamo avuto due figli. Si chiamano Stefano e Smeralda, mi somigliano molto.»
Isabelle ascoltò Cassandra in silenzio, senza fiatare. Guardava gli occhi della donna che aveva dinanzi e li vedeva brillare e allora pensò: non hanno mai brillato così per me, eppure sono anch'io sua figlia, cosa c'è di diverso in me?
«Perché adesso sei qui? Perché hai insistito tanto? Cosa è cambiato?»
«Qualche settimana fa ho trovato in una vecchia scatola una delle tue scarpette da neonata ed è stato un po' come riaverti in braccio», le rispose sua madre, «Non riuscivo a smettere di pensare che forse avrei dovuto trovarti, conoscerti, darti delle spiegazioni. Poi guardavo i miei figli e ti immaginavo a interagire con loro. Sai, Smeralda mi chiede sempre perché io non le regali una sorellina, ha solo sei anni, sarebbe felice di conoscerti.»
I suoi occhi brillarono ancora, forse più di prima, nell'esatto momento in cui le sue labbra pronunciarono il nome di quella bambina di cui Isabelle non conosceva nemmeno il volto, ma che non riusciva a fare a meno di immaginare con gli stessi occhi e le stesse labbra di Cassandra. Un po' come sé: Isabelle somigliava molto a sua madre, avevano gli stessi occhi e lo stesso sorriso.
«I-io non penso di volerli conoscere.»
«Oh, sì, scusami, hai ragione», gli occhi di Cassandra si abbassarono.
Si domandò se non avesse esagerato. Forse aveva parlato troppo, forse non avrebbe dovuto dare troppo sfogo al suo entusiasmo, d'altronde erano ancora in una situazione critica ed il fatto che Isabelle avesse acconsentito di incontrarsi, non significava che avesse accettato di perdonarla.
Cadde il silenzio.
Isabelle continuava a pensare alle parole di Cassandra, ma non riusciva ad essere arrabbiata. Aveva provato tenerezza per lei nel vederla parlare dei suoi figli, ma non aveva intenzione di incontrarli, non a breve almeno. Non riusciva neanche ad odiarla per non essere stata capace di essere stata una madre anni prima, con lei. In cuor suo aveva già perdonato quella donna, ma faticava ad accettarlo per orgoglio.
«Scusami, Isabelle» disse Cassandra.
«No, è tutto okay. Va bene se sei felice adesso, non sono arrabbiata. Avevo solo bisogno di sapere.»
Avevo solo bisogno di sapere se andrai via ancora.Camminarono lentamente, erano entrambe senza auto e per passare ancora del tempo insieme scelsero di andare a piedi. Tutte e due con le mani nelle tasche delle loro giacche e le borse sulle loro spalle: quelle due donne che apparentemente si somigliavano così tanto, ma in realtà avevano così poco da spartire.
Non avevano più toccato l'argomento passato, Isabelle aveva accumulato abbastanza per poter andare avanti e smettere di odiare quella donna, o almeno per provarci. Ma già in partenza non stava andando così male, anzi, si erano pure un po' divertite. Isabelle le aveva raccontato della sua esperienza al liceo, della gita del quinto anno, del viaggio in Ungheria per il suo diciottesimo compleanno, l'unico regalo da suo padre che lei avesse mai accettato e apprezzato. Le raccontò dei suoi amici, di quanto amasse passare del tempo con loro. Le raccontò delle sue passioni, delle sue aspirazioni.
Sapevano che tutti quei racconti non sarebbero bastati a recuperare anni di assenza, ma forse potevano lavorarci sopra questa volta.
«Quindi tu non hai il ragazzo?» domandò Cassandra.
Isabelle scosse il capo.
«E quel ragazzo che era con te quando ci siamo incontrate al tuo appartamento? Da come ti guardava avrei giurato ci fosse qualcosa.»
«No, lui è il mio migliore amico», lo disse quasi in un sussurro talmente basso che Cassandra dovette avvicinarsi per sentire.
«È la mia parte migliore», confessò quasi imbarazzata.
Ma c'era qualcosa nel modo in cui lo disse, o nel modo in cui i suoi occhi si persero nel vuoto che rivelava che Harry non era solo la sua parte migliore, lui era ogni singola parte migliore dell'intera vita, dell'intero universo, di Isabelle.
«Siamo sicuri che tra voi non ci sia niente, giusto?»
Isabelle sorrise e continuò a camminare guardando in basso, fin quando non alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli di Harry: lui era lì, davanti la porta del suo palazzo, con le mani nelle tasche dei suoi jeans stretti, il cappotto aperto, il cappuccio della felpa alzato sulla testa ed una sigaretta tra le labbra.
«È lui, vero?» chiese, Cassandra.
Isabelle annuì, prima di avvicinarsi a lui, che nel frattempo tirò avanti andandole incontro.
«Ti ho chiamata ma non rispondevi», le disse quando furono vicini.
Il ragazzo si chinò a lasciarle un bacio sulla guancia e poi le regalò un sorriso che Isabelle accolse a cuore aperto.
«Oh, scusami, il mio cellulare è in borsa, non l'ho sentito.»
«Va bene, è tutto okay.»
Le dita di Harry pizzicarono la guancia della ragazza, che punta dall'imbarazzo e consapevole del fatto che sua madre era lì, alle sue spalle, a guardare i due ragazzi attentamente.
«È tua madre lei?»
Isabelle annuì, voltando il viso verso la donna e intimandola ad avvicinarsi.
«Harry, lei è Cassandra... mia madre.»
Le sembrò strano doverla presentare con quell'appellativo, ma non sapeva come altro definirla.
«Lui è Harry», indicò il ragazzo.
Lui porse una mano alla donna, la quale la strinse e gli sorrise calorosamente.
«Isabelle mi stava giusto parlando di te», confessò e la ragazza la maledì mentalmente per questo.
Non era necessario che lei lo dicesse, ma Cassandra l'aveva fatto a posta. Le era bastato guardare Isabelle negli occhi e vederli insieme per un solo minuto per capire che tra quei due non era semplice amicizia, nonostante neanche loro stessi se ne capacitassero. Chiunque sembrava vedere ciò che loro si ostinavano a negare. Non era amicizia, forse non lo era mai stata.
«Davvero?» chiese Harry.
Isabelle sorrise imbarazzata e Cassandra annuì soltanto, senza aggiungere altro.
«Io adesso devo andare», annunciò alla fine.
«Non ti va di salire un po'?» le propose Isabelle.
E per quanto quella proposta rendesse felice quella donna, purtroppo non poteva accettare; i suoi figli a quell'ora si stavano sicuramente chiedendo che fine avesse fatto la loro madre, perché non li stesse chiamando proprio come faceva tutte le sere da quando era partita dall'Italia per cercare di ritrovare il rapporto perduto con quella figlia?
«Non posso, mi dispiace. Devo davvero andare via.»
Isabelle annuì e non insistette ancora.
«Grazie.»
Si sorrisero e senza aggiungere nient'altro Cassandra andò via.Harry era rimasto a cena da Isabelle e dopo aver mangiato le loro pizze, lei lo aveva tirato per il braccio fino alla sua camera. Erano seduti sul letto: Isabelle appoggiata alla testiera, Harry tra le sue gambe, le mani intrecciate, i respiri quasi sincronizzati.
«È andata bene allora, con tua madre», constatò Harry.
Isabelle annuì, abbastanza tranquilla, mentre con le dita e con gli occhi si perdeva a tracciare le vene sporgenti sulle sue mani.
«Ti piacciono?»
«Cosa?» Isabelle era quasi distratta da quelle mani.
«Le mie mani.»
«Oh, i-io n-non...»
Harry rise, allargando la mano in modo da intrappolare nel suo palmo quella piccola di lei, e stringerla, tirarla fino al suo viso, baciarne il dorso, le nocche, le dita.
«Le tue sono così piccole invece.»
Isabelle sorrise, stringendo le braccia attorno alle spalle del ragazzo, mentre lui continuava a giocare con le loro mani.
Si scambiarono diverse carezze, infinite coccole ed entrambi non sembravano averne mai abbastanza.
Isabelle, mentre guardava Harry addormentarsi in quella posizione e con le loro mani legate, pensò che quella sera era andato tutto bene, che con sua madre forse una sorta di rapporto avrebbe potuto recuperarlo, o comunque crearlo, che con Harry stava bene nonostante non riuscisse a definire ciò che li legava.
Pensò che non gli importava, di nient'altro. Che lì ci stava bene, che quello era il suo posto._____
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Endless love. xx
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Il rumore del silenzio [HS]
FanfictionE tacque. Tacque i suoi sentimenti. Tacque il suo amore. Restando in silenzio, un silenzio che però faceva rumore. Il rumore di un amore che nessuno ascolta, che nessuno vuol capire, che nessuno è capace di sentire. Smisero di guardarsi, ma non smis...