- Cap. 5

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"L'intelligenza è invisibile
per lui che non la possiede."
Hobbes

POV ALLIE

Qualcuno un giorno forse chiederà cos'è questa. Beh, accontentato subito: una cavolo di storia. Una storia orrenda probabilmente, che forse non vedrà mai una fine o magari sarà accartocciata nel cestino appena la rabbia e il malumore passeranno insieme alle ragioni di scriverla. Eppure questa terribile storia ha avuto uno scopo, per qualche minuto magari, ma lo ha avuto. È solo grazie a lei che la mano ha smesso di tremare e che i battiti del cuore sono rallentati, insieme a qualche gocciolina di sudore che è scesa lungo il petto, segnando l'affievolirsi della tensione e i gorgoglii nello stomaco. Mi dispiace, ma questa storia non servirà a voi per lo stesso motivo: a voi non servirà ad un bel nulla presumo, o forse sì ma dovrei chiederlo ad un lettore e per ora non è uscita da questa stanza. Quindi non giudicatemi se sarà noiosa o ripetitiva: non la sto scrivendo per voi, ma per me.

"Fanculo!" ringhio, gettando il foglio in un quaderno e scaraventandolo poi contro l'armadio. Casa mia è un disastro e anche io lo sono, sconvolta e con gli occhi pesti ho trascorso buona parte del pomeriggio a fissare la scatola dei gessetti e il blocco, arrivando poi a scrivere qualcosa di depresso completamente privo di senso.
"Che merda..." borbotto ancora quando i miei occhi cadono sullo zaino in terra.
Non so nemmeno dove andare, figuriamoci se penso a cosa mettere nella borsa. Diciassette anni e cacciata di casa, beh, infondo era quello che desideravo da settimane, poter lasciare quel tetto ed essere di nuovo felice in qualche posto. Peccato solo che, per quanto mi sforzi, non riesca a trovare un luogo che assomigli al "qualche posto".

Mi volto ancora sulla sedia girevole, ripensando alle parole del professor Downey di quella mattina: forse desiderava davvero aiutarmi, ma non volevo mostrargli i miei sentimenti. Dell'impreparato non mi importava niente ma invece temevo che liberasse una risata dicendo che di problemi familiari di questo tipo li abbiamo avuto tutti. Non volevo che mi considerasse una bambina, lui conosce quella parte di me che riesce a vedere scritta sulle verifiche, non sa della mia rabbia e non scorge le nuvole sulla mia testa.
Ma io so del suo profumo invece. Ormai lo conosco e faccio difficoltà a dimenticarlo: maschile e pungente gli accarezzava la pelle come una stoffa, rivestendola virilmente lungo la mascella e sul collo. Avvicino la bocca alla copertina del suo libro, avvertendo la stessa aroma di tabacco anche su quella superficie, mi sembra quasi di percepire il sudore della sua mano lungo la costola e il braccio attorno al volume.
"Ma che cazzo stai facendo?!"
Lo allontano, percependo ancora sulle labbra quella fragranza bagnata, sbatto il libro sul tavolo ricordando inevitabilmente il gesto del professore e mi alzo di scatto.
Infilo i pennarelli e il blocco da disegno nello zaino e prendo il cappotto dall'armadio sistemandolo sotto il braccio. Arrivata sulla porta mi volto per guardare la mia camera disordinata: gli schizzi sul pavimento e qualche poesia gettata nell'angolo sembrano renderla ancora più caotica e trascurata.

Con uno sbuffo tiro fuori il telefono dalla tasca: George è l'unica persona a cui mi posso rivolgere in questo momento. Seleziono il suo contatto e compongo velocemente un messaggio, forse è confuso ma in questo momento ho veramente bisogno del suo aiuto.

Scendo le scale a rotta di collo, sono quasi le sei e mezza e mia madre sarà a casa a momenti. Arrivata infondo, però, mi ricordo improvvisamente del libro del prof sulla scrivania e mi precipito di sopra a prenderlo. Sfioro con dolcezza la copertina prima di riporlo nella borsa, tirando un sospiro quasi sollevata da quel fresco contatto.

"Allie! Ho visto ora il tuo messaggio, ti stavo per rispondere, puoi restare quanto vuoi!" è George ad aprirmi la porta, mi accoglie con un aperto sorriso e una comoda tuta scura. La sua figura alta e slavata, forse eccessivamente magra, non mi emoziona, lascio una occhiata indifferente sui suoi lineamenti femminili ed entro nel soggiorno, quasi annaspando sotto il peso dello zaino.
"Finalmente ti sei decisa a raccontarmi cosa ti succede? Siamo amici da una vita, Allie, puoi dirmi qualsiasi cosa."
Alzo lo sguardo, mentre lui con gentilezza mi sfila la giacca.
"Sei davvero sconvolta, da quando non dormi un po'?" avvicina timorosamente una mano, lasciando una leggera carezza sulla guancia che sembra ravvivarmi.
Forse mi sono sbagliata su di lui. Avrei dovuto confidargli tutti i miei problemi sin dall'inizio, avrebbe potuto darmi il conforto di cui avevo bisogno.
Mi lascio cadere sul divano, sentendo le prime lacrime scivolare lungo il viso.
"Allie, perché non mi parli?"
"È mia madre, George. Mi ha allontanato. Papà l'ha lasciata ed è tutta colpa mia. Non avrei dovuto contraddirli sempre così da aumentare le loro discussioni..."
Mi osserva con un leggero sorriso, accarezzandomi i capelli.
"Non fartene un colpa. Forse doveva succedere lo stesso. Stai meglio ora?"
Scuoto la testa con violenza, sentendo altre lacrime e un singhiozzo scuotermi il petto.
"Ho fatto un casino, George!" mi getto tra le sue braccia, stringendo il suo corpo freddo senza riuscire a provare alcun sollievo. Lui ricambia la stretta prima che mi decida a staccarmi, si china e pressa le sue labbra sulle mie, muovendole subito in cerca di un contatto più profondo.
"Ma cosa stai facendo?!" strepito scostandomi subito e saltando in piedi.
Mi scosto i capelli da viso, appiccicati al mento e alle guance.
George mi fissa stupito e contrario.
"Io pensavo che tu lo volessi!"
"No, no assolutamente. Siamo amici ma non questo!"
"Non questo? Tu mi piaci da una vita! Perché non lo ammetti anche tu e ti lasci andare?!"
Sento le braccia tremare e la testa confusa.
"Perché tu non mi piaci George! Oh Dio, che cazzo ci sono venuta a fare qui?!" sconvolta afferro lo zaino e raggiungo l'entrata, George mi segue giustificandosi, ma prima che possa afferrarmi per un braccio ho già sbattuto il portone.

"Perché tu non mi piaci George! Oh Dio, che cazzo ci sono venuta a fare qui?!" sconvolta afferro lo zaino e raggiungo l'entrata, George mi segue giustificandosi, ma prima che possa afferrarmi per un braccio ho già sbattuto il portone

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Sento le braccia gelate e le goccioline raffreddarsi sulla mia pelle.
Sono proprio come quel vetro, penso, attraversando la strada e cercando di scappare da chissà cosa, quel brutto vetro della classe di filosofia, sporco e bagnato e con il mio infelice riflesso impresso sulla superficie, accanto al mio banco solitario e alla sua cattedra. La cattedra del professor Downey, ricoperta dai sui libri e inebriata dal suo profumo.
"BASTAA!" urlo con quanto più fiato ho in gola, rivolgendomi al cielo nero e alle invisibili stelle. Chissà se mamma riesce a vederle da casa, o papà dal suo fumoso pub di ubriaconi o Downey, dalla sua filosofica casa di qualche posto.
Qualche posto.
Alzo gli occhi, una rumorosa discoteca all'angolo sembra ospitare numerosi giovani scatenati. Sulla insegna brilla la l'invitante targa e il tanfo acre di sudore e di alcol sembra farmi dimenticare l'aroma di tabacco e cuoio.
Qualche posto. Qualsiasi posto va bene.

SPAZIO AUTRICE
OPS. Casini casini casini in arrivo.
Ma come dice il detto (boh) bisogna toccare il fondo prima di risalire o qualcosa del genere.
Commentate o votate altrimenti vi crucio (cit Shinimal te la frego solo sta volta promesso hahah)
A presto
Minea

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