- Cap. 2

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"È una bella prigione il mondo"
Shakespeare,
Amleto

POV ALLIE

Alzo gli occhi al cielo, stupendomi di quanto sia luminoso e chiaro, quasi la sua luce mi acceca. Per la prima volta le mie labbra non si muovono inconsciamente l'una sull'altra, formando uno spensierato sorriso.
Il bagliore mi infastidisce e con una smorfia abbasso lo sguardo, continuando a proseguire sul marciapiede.
Non ho raccontato nulla di me, me ne rendo conto, ma non ho molto da dire. Forse, semplicemente, adesso non sono dell'umore adatto per farlo, oppure sono le suole delle scarpe a ribellarsi, scivolando con difficoltà sulla strada o le palpebre facendo difficoltà a non chiudersi accecate dal chiarore.
Avanzo ancora, sistemando lo zaino sulla spalla e scostando i capelli dalla fronte.
Alison Taylor.
Già, è così che mi chiamo.
Un orrore di nome. Per fortuna quasi nessuno mi chiama Alison, solo i miei amici a volte quando vogliono farmi arrabbiare. Di rado rispondevo a questi scherzi con insulti e rabbia, di recente invece cerco di evitare i compagni e le amiche, come se improvvisamente fossi diventata della loro stessa carica elettrica, e fossi respinta.
Li sento lontani, troppo bassi per il mio metro e settanta o forse troppo conformisti per le mie idee. E se, semplicemente, i loro giorni fossero diversi dai miei e le loro aspettative migliori?
Attraverso la strada, sono quasi arrivata a scuola. Come tutte le mattine ho lo sguardo annebbiato e i pensieri confusi, come se anche la mia mente risentisse della fastidiosa insonnia. In realtà poi non è così noiosa; mi ha permesso di concludere il disegno dell'albero a carboncino la scorsa notte e di ammirare le stelle dal balcone. Improvvisamente sento una fitta al fianco, come se il mio corpo desiderasse contraddirmi.

L'alto cancello della Emanuel School si staglia contro il celo limpido, mettendo in risalto la vecchia targa e le crepature della vernice. Lo varco, facendomi largo tra il gruppo di studenti all'entrata, e mi allontano per sistemarmi su una seduta in pietra in un angolo dei giardini. Le luci del mattino riscaldano i mattoni dell'edificio, illuminando l'elegante campanile e le edere lungo i cornicioni.

I ragazzi raggiungono disordinatamente l'entrata quando l'orologio batte le otto, mi sembra di intravedere George e Betty  vicino alle finestre orientali quando la folla sembra scemare

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I ragazzi raggiungono disordinatamente l'entrata quando l'orologio batte le otto, mi sembra di intravedere George e Betty  vicino alle finestre orientali quando la folla sembra scemare. Sollevo istintivamente il mento per raggiungerli con lo sguardo, quando improvvisamente rammento che anche loro sono troppo bassi e conformisti.
Noiosi, se posso dirlo. Probabilmente anche loro diranno la stessa cosa di me, vedendo i miei occhi spenti e il mio viso pallido, da giorni si sono accorti che la mia voglia di parlare sembra essere scomparsa del tutto, con un sorriso compassionevole hanno preso il loro vassoio e allontanandosi dal mio tavolo a mensa hanno rispettato la mia fredda solitudine.
Sulla destra del parco la Peel, insegnante di lettere, sta discutendo animatamente con il professor Hull, forse cercando di far prevalere le sue ragioni bigotte e superate sulla vena artistica del professore di disegno. Quasi mi scappa un sorriso nel vedere l'espressione stracca e annoiata di Hull, mentre con la vecchia schiena ricurva cerca di prestare attenzione alle energiche parole della Peel. Dietro di loro il giovane allenatore della squadra di pallavolo sembra incitare un gruppo di ragazzi forse per la partita del college di quel pomeriggio. Mi sporgo leggermente, piazzando la mano sul bracciolo ruvido per far scivolare lo sguardo sulle gambe toniche e le spalle larghe del professore. Con un dondolio della testa mi ritrovo ad apprezzare quelle curve più di quanto una giovane di diciassette anni dovrebbe fare osservando la figura del suo insegnante di educazione fisica. Non saprei se lodare Reed per il suo torace ampio o se giudicarlo per le frasi frivole che frullano nella sua testa e le parole senza senso che spara durante gli allenamenti. Forse dovremmo lasciare gli sport agli sportivi e i dizionari agli eruditi. Alla Peel, per esempio, che non fa altro che lodarsi per le infinite capacità descritte nel suo curriculum o all'ingegnere Toschi, che, pur non conoscendo i numeri razionali, si è ritrovato ad insegnare in una prestigiosa scuola di Londra. Direi di gettare vocabolari, palle da basket e gessetti dalla finestra e fare una colletta di umiltà per questi straordinari soggetti.

Sì, non ho pietà per nessuno. Ve ne renderete conto conoscendomi meglio tra queste pagine. Forse capirete che anche io ho bisogno di qualche donazione di umiltà o faticherete a comprendere che il mio sorriso un tempo era solare e aperto e non tirato e scontroso. Un tempo ovvero un mese fa. Cosa diavolo è successo in un mese da cambiare così tanto la mia espressione e rendere così arrogante la mia figura?

Non sono io ad essere diversa, sentenzio con sarcasmo tra i pensieri, mentre supero il portone. Sono gli altri ad essere rimasti bambini o nel caso dei miei genitori, ad esserlo nuovamente.
Le loro urla rimbombano ancora nella mia testa, indurendo il mio cuore e le mie dita attorno alla tracolla. Non ricordo nemmeno il motivo della litigata, forse la tendenza di mio padre a bere troppo o i continui impegni di lavoro di mia madre, le sue riunioni con l'attraente capo o le cene in ufficio. Forse ero io, ad essere piombata di colpo in cucina, e ad aver scatenato l'inferno. All'improvviso le luci si erano puntate su di me, caricandole di offese di come sono lontana e mi disinteresso dei loro problemi, di come contraddico ogni loro decisione, di come mi vesto e trascorro le giornate chiusa in camera.
Spingo davvero i miei genitori a litigare di continuo perché tento di esprimere la mia idea con la caparbietà di un'adolescente?
Nemmeno loro mi capiscono più. Freddi e presi dalle loro discussioni non perdono tempo nemmeno a domandare come ho trascorso la mattina a scuola o cosa ho mangiato a pranzo.
Forse, senza rendercene conto, siamo cambiati tutti e tre, divenendo incompatibili e dannosi mescolati insieme, reagendo con l'ossigeno dell'aria e l'azzurro del cielo, producendo diossido di carbonio e chissà quale altra sostanza letale.

Procedo per i corridoi, abbassando lo sguardo ad ogni apprezzamento sul mio lungo ciuffo chiaro. Un tratto che ho dalla nascita, una voglia strana che mi accompagna da una vita e che in parte adoro. Risalta elegantemente sulle mie giacche nere, quasi andando a sfiorare con la lunga chioma il bordo del pantaloni cinghiati e strappati dello stesso colore. Che look strano mi accompagna negli ultimi periodi. Beh, visto da fuori non è così stravagante come lo faccio sembrare ma sulla mia pelle, abituata a felpe colorate e t-shirt alla moda, sembra stonare più di quel limpido cielo che intravedo dalle finestre.
Basta parlare della vecchia Allie.
Non nominerò più quella sciocca ragazza dal sorriso frivolo, voi non l'avete conosciuta e diavolo, ormai non riuscirò più a trovarla.
Quegli abiti mi piacciono, il risaltare dell'accostamento giacca elegante e pazzi pantaloni sembra donarmi, forse ricorda la serietà e arroganza che mi caratterizza, la voglia di contraddire tutti e fare scelte sbagliate e poi il desiderio di intraprendere la strada di casa.
Che posto strano che è il mondo...

"Cristo! Ma non puoi guardare dove cammini?!" mi sento richiamata da una voce, ho sbattuto contro qualcuno e questo, risentito, borbotta rumorosamente.
Percepisco un precipitare di libri sul pavimento, alcuni mi colpiscono i piedi e così mi scanso senza pensarci.

SPAZIO AUTRICE
Oggi mi sento particolarmente generosa, quindi pubblico anche il terzo capitolo per la vostra infinita gioia.
Tanto per presentare voisapetechi
Minea

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