Capitolo 39

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|CAPITOLO 39|

Nove giorni.

Nove fottutissimi giorni.

Capite?

Duecentosedici ore.

Dodicimilanovecentosessanta minuti.

Settecentosettantasettemilaseicentosecondi.

«Spiegami che ti succede» mi aveva chiesto mio fratello il primo giorno.

«Mal di pancia» avevo mentito.

Ma lui non ci aveva creduto.

Ovviamente. Ma che cazzo.

Il secondo giorno ho ripreso a leggere strazianti FanFiction su Niall Horan, con l'intento iniziale di ridere, ma nel mio profondo sapevo che, mi mancava leggere o comunque anche pronunciare interiormente il suo nome così spesso.

«No, ma che cazzo sto pensando?» avevo urlato, rompendo il cellulare contro la perete.

Il terzo giorno realizzai che era meglio, per la mia salute mentale, non ricomprare un nuovo telefono.

«Hey, Jessie, vuoi giocare a basket?» mi aveva chiesto Luke, inclinando la testa per poter inquadrare la mia testa stesa per terra insieme al mio corpo, dalla sedia a rotelle.

«No» scossi leggermente la testa per quanto la mia lieve sanità mentale me lo permetteva.

Il quarto giorno, ho realizzato quanto davvero Niall mi mancasse. Non sono uscita dalla mia stanza quel giorno, né per mangiare, né per andare a farmi una doccia, cosa di cui avevo sinceramente bisogno, così feci anche il quinto giorno, con l'unica variante che quel giorno piansi.

Il quinto giorno fu l'inferno.

Il sesto giorno passó in fretta. Vedevo l'inverno arrivare e comunque, in qualche modo, e tuttavia, mi ritrovavo a pensare a dove fosse e a che cosa stesse pensando o stesse facendo. Insomma, lui era il mio incubo.

Il settimo giorno uscii dalla mia camera. Luke guardava fuori dalla finestra. Mi abbracció ed io piansi.

«Non pensavo mi sarebbe mancato così» dicevo «Non lo si sa mai, in realtà» ammise.

L'ottavo giorno, smise di piovere ma io no. Dentro piovevo. Piovevo a dirotto, era tutto così angosciante.

«Vuoi chiamarlo?» chiese. Scossi la testa.

Il nono giorno. Il nono giorno é oggi.

Non ho la forza di guardare l'orologio sulla parete per vedere per quanto effettivamente sono stata a letto questa mattina...o dovrei dire pomeriggio?

«Ti ho portato la colazione» dice mio fratello entrando.

«Vedo che continui ad avere la tua bella abitudine di non bussare mai, Luke» lo schernisco.

Lui fa spallucce per poi ritornare serio, cosa che io temo sinceramente.

«Okay, ascolta» comincia spostando i gomiti sulle sue ginocchia, ricordandomi che non le può più muovere in qualsiasi caso.

«Io non ho idea di cosa ti abbia fatto questo ragazzo» sospira.

«Io...non...nemmeno io» mi arrendo.

«O cosa tu abbia fatto a lui» cambia tono di voce.

«Che cosa? Sono ancora vergine per tua informazione» mi tappo la bocca spalancando gli occhi alla mia affermazione.

«Capisco la tua sentimentale vita attiva, ma non mi servono i particolari, sorellina» risponde.

«Beh, che intendi dire?» sbotto.

«Intendo dire, Jessie, che c'è un mazzo di rose e girasoli all'entrata. Sembra uno di quelli che portano alla regina Elisabetta, non so se mi spiego» gesticola.

«Ti spieghi benissimo» biascico saltando giù dal letto e correndo letteralmente di fronte alla porta di casa.

Tra le rose e i girasoli noto il biglietto intrappolato tra le spine.

"Dovresti tornare -Louis" è scritto.

Rilascio un respiro che non sapevo di star trattenendo. Il biglietto ricade tra i fiori lontano dalle mie mani, e istintivamente lancio i fiori via da me.

Ma non basta. Strappo i petali alle rose e li stringo tra le mie mani finché queste ultime non si sporcano del medesimo colore. Butto i girasoli del cestino e mi accorgo che sto piangendo.

«Era lui?» chiede. Scuoto la testa.

«Vuoi chiamarlo?» mi chiede. Scuoto la testa di nuovo, gesto reso patetico da un singhiozzo.

«Jessie...» biascica

«Voglio chiamarlo» annuisco con voce spezzata.

«Ora lo chiamo, si. Lo chiamo» ripeto.

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