Ferite di guerra

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Quella notte ero così talmente stanca che se avessi potuto, il giorno dopo avrei dormito fino mezzo giorno ma a quel punto della mia vita non mi ricordavo nemmeno l'ultima volta che dormii fino le nove del mattino. Già quello sarebbe stato un lusso irraggiungibile, non con la vita che avevo scelto quanto meno.
Fui la prima a svegliarmi quando ancora il sole stava sorgendo. Dieci minuti alle sei del mattino, faceva freddo. Uno di quei gelidi freddi che pungeva sulla pelle facendo male. Dopo aver svegliato sia i ragazzi che i giornalisti andai in bagno. Non avevo dietro lo spazzolino, nemmeno il dentifricio. Del resto chi avrebbe mai previsto un pernottamento in quel buco di posto? Tanto orribile da farmi rimpiangere la base di Bagdad.
Sciacquai la bocca con dell'acqua e dopo aver lavato il viso sistemai i capelli in una treccia che mi scendeva sulla schiena. I vestiti e l'uniforme puzzavano di sudore ma avevo solo quelli quindi mi arrangiai.
Andando verso quella che era la sala principale il mio olfatto venne investito dall'odore del caffè, guardandomi attorno notai che i presenti già pronti lo stavano prendendo da un grosso termos.
"se lo volete c'è anche per voi" disse Il sergente Ribaldi indicandolo con il braccio destro quasi in modo teatrale, probabilmente stavo guardando quel caffè come un morto di fame guarda del cibo. Lo ringraziai come gli altri del mio gruppo e ci fiondammo sul termos.
Faceva schifo, nemmeno un po di zucchero ma era qualcosa di caldo da buttare giù nello stomaco e che mi avrebbe aiutata a stare sveglia. L'atmosfera generale era narcolettica. Una di quelle giornate che faticavano a prendere piede.
Dopo il caffè, tutti sembravano pronti ad iniziare nonostante i volti erano mezzi addormentati.
"Ribadisco, si comunica ogni minima cosa, i col moschin stanno nel blindato davanti l'auto botte, Cremi, li prendi tu, gli altri stanno con me dietro".
Cercai il soldato che rispondeva al cognome di Cremi, guardai una toppa dopo l'altra e quando lo trovai mi resi conto che era anche egli un caporale. Ogni azzurri e capelli nocciola, li vidi giusto pochi attimi visto che poi li coprì col caschetto.
"oggi sarete con me, quindi" esalò lui con un tono simpatico, anche le labbra si erano curvate in un cordiale saluto.
"così pare" gli risposi mentre uscii al suo fianco, i piedi mi facevano ancora male. Erano fasciati dentro gli stivali ma potevo sentirli doloranti ad ogni passo. Probabilmente zoppicavo un po anche se cercavo di non farlo. Che brutta figura sarebbe stata? Il lato positivo era che saremmo rimasti sul lince per diverso tempo. Mentre Cremi guidava io mi sedetti al suo fianco, gli altri invece restarono dietro con i giornalisti che avevano già iniziato a girare quello che stava accadendo.
Dopo che Cremi avvertì l'imminente partenza al CB mise in moto e finalmente partimmo. Vi era ancora bisogno dei fari in quanto ancora era piuttosto buio, da li a un quarto d'ora sicuramente li avremmo potuti anche spegnere. Durante il tragitto, quando non parlava alla radio. Cremi ci diceva quanto sicura fosse la strada che percorrevamo, era un lavoro piuttosto tranquillo e a me piaceva viaggiare. Usando un occhi di riguardo potevo comunque guardarmi attorno e vedere posti decisamente diversi da quelli in cui ero cresciuta a cui però iniziavo a farci l'abitudine. L'aria calda avvolgeva la mia pelle e anche se non stavo facendo niente mi sentivo accaldata, anche per via dell'uniforme e il giubbotto che non erano sicuramente leggeri. Parlammo per tutta la durata di quel viaggio, non ricordo bene di cosa ma divagammo molto, ci furono anche delle risate ma non ricordo bene il motivo. Quando invece arrivammo notai subito le guardie attorno al pozzo che nonostante erano state anticipatamente avvertite del nostro arrivo, ci chiesero le generalità. Soltanto adeguata prassi.
Il pozzo era circondato da recinzioni in metallo, sacchi e gabbioni di sabbia. Oltretutto erano state posizionate tre Browning M2. Nonostante fosse un luogo relativamente sicuro, quelle tre mitragliatrici sicuramente rendevano il posto più sicuro.
A nord il terreno si alzava quindi in quel lato vi era un muro abbastanza alto da coprire l'attacco di eventuali cecchini mentre dagli altri lati si aveva una buona visuale per diversi chilometri. Attaccare quel punto quindi sarebbe stato complicato, non impossibile ma quei ragazzi erano ben difesi. Conobbi alcuni di loro, non ricordo tutti i nomi ma uno di quei ragazzi veniva da Scandicci, un comune Fiorentino. Riconobbe il mio accento e dopo avermi chiesto di dove fossi mi confidò la sua provenienza. Sembrava così felice di aver incontrato qualcuna di così tanto vicina a lui in un paese tanto lontano dall'italia. Ma non avevamo tempo da perdere in chiacchiere. Riempire la cisterna avrebbe impiegato diverso tempo e quindi non ci restava altro che starle vicino, a guardia della stessa. Il rumore prodotto dall'acqua che usciva dalle bocchette era assordante, entrava nelle orecchie, coprendo qualsiasi altro rumore. Passarono interminabili minuti, domandai quindi quanto ancora sarebbe mancato e scoprii che mancava davvero poco ma appena ringraziai il ragazzo sentii parlare in cuffia.
"Sergente Ribaldi, Sergente Ribaldi, c'è stato un duplice attacco terroristico, ci sono state due violente esplosioni, siamo sotto attacco, è un vero casino qui!". Disse questo un ragazzo. Tutti ci allarmammo e dopo l'ordine da parte di Ribaldi che ci disse di lasciare lì l'autobotte, salimmo sui blindati e partimmo a tutta velocità facendo spazio anche ai due che precedentemente guidavano l'autobotte.
Eravamo lontani e anche se avremmo viaggiato al massimo della velocità forse avremmo potuto risparmiare un quarto d'ora, non di più. Quindi in tutto il resto del tempo i ragazzi al villaggio potevano benissimo essere sopraffatti.
Quando finalmente arrivammo tutti quanti si piombarono all'esterno, ci fu un po di caos generale visto che il Sergente Ribaldi stava dando indicazioni, io dovetti fare la stessa cosa dicendo alla truppe di starci dietro senza fiatare ne riprendere, minacciai di sparare alla videocamera se solo avessi visto la lucina rossa accesa. Fu un ottimo deterrente o quanto meno speravo. Dovemmo correre per raggiungere le prime palazzine, un riparo degno di essere chiamato tale visto che evitammo di avvicinarci troppo coi blindati. Notai fin da subito alcuni cadaveri civili riversi per strada, quelli che non erano carbonizzati giacevano sotto pozze scarlatte. I muri di alcune abitazioni erano poi crollati e la strada principale fu quindi invasa da macerie e mattoni. Io e il sergente Ribaldi ci dividemmo gli uomini, alcuni del nono di bari restarono quindi con me e ci posizionammo alla sinistra e alla destra della strada principale. Impattai con la spalla sul muro, e subito mi affacciai all'angolo per vedere se la strada fosse libera.
"per ora avanziamo, guardate ovunque, soprattutto le finestre, spariamo a vista" dissi. Ero la più alta in grado in quel gruppetto, quindi dovevo comandarli io. Una responsabilità di cui ancora non mi sentivo pronta. Brandivo il mio fucile all'altezza uomo, facendo movimenti rapidi e secchi quando dovevo guardare nei vicoli tra una casa e l'altra. Ogni volta dicevo "libero" e dietro di me facevano la stessa cosa nel passare. Tutto d'un tratto arrivarono quattro uomini coi visi coperti dalle kefia, armati di ak 47, spararono contro di noi mancandoci clamorosamente.
Sia io che il sergente Ribalti facemmo fermare la fila e mentre loro si stesero dietro un cumulo di macerie, noi trovammo riparo dietro un vicoletto per toglierci dalla linea di fuoco. Oltre l'angolo vi era una scalinata la cui base poteva offrirci un ottimo riparo per stare acquattati ed esporci per sparare. Ordinai a due dei miei di fare il giro della casa, per controllare che non ci fossero altri di loro e dopo qualche attimo sbucarono dal vicoletto ad una dozzina di metri più avanti. La sparatoria era difficile, loro avevano il vantaggio del terreno lievemente sollevato rispetto al nostro, oltretutto si riparavano anche loro dietro gli angoli delle case.
" sono il caporale Mazzoli, sergente Ribaldi, se me li tiene impegnati io li prendo dal fianco".
Aspettai una risposta anche se potevo vederlo non avrei sentito la sua voce sotto il forte suono degli spari.
"se hai modo di farlo, ti do il mio consenso, te li tengo occupati". Così quando il suo gruppo intensificò il fuoco io diedi ordine al mio di muoverci dal retro delle case, in un vicoletto più piccolo. Bassi e silenziosi.
Alla nostra sinistra avevamo un muro alto circa un metro e mezzo mentre alla destra le varie case coi vicoli tra una e l'altra.
Anche in quella strada alcuni corpi giacevano e fu proprio percorrendola che mi imbattei in qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Lo stesso bambino che avevo rimproverato e carezzato giaceva con la sua sorellina e i suoi famigliari contro un muro, insieme ad altre famiglie. Con l'unica accusa di aver accettato aiuti da quelli che i jihadisti chiamano "l'invasore" noi. Dovetti procedere ignorandoli andare oltre come se niente fosse anche se il mio cuore subiva l'ennesima ferita. Odiavo l'Iraq, lo odiavo con tutta me stessa. Finalmente potemmo voltarci raggiunto un determinato vicolo e inginocchiandomi mi sporsi dando modo a quello dietro di me di esporsi sopra la mia testa. Il terzo e il quarto fecero la stessa cosa dal lato opposto del vialetto. Sparando da quel lato, colpimmo quei cani ancor prima che furono in grado di rendersene conto. Caddero in terra dal primo all'ultimo e conquistato quel punto di strada ci raggiunsero anche quelli di Ribaldi. Uno di noi sparò in faccia ad un superstite che si lamentava tenendosi il petto. Probabilmente sarebbe comunque morto entro pochi minuti.
A quel punto avevamo raggiunto un incrocio a tre vie; quella da cui eravamo arrivati, a sinistra verso la piazza e a destra verso il forte occupato dal nono di bari.
"tieni con te i miei ragazzi che hai già, andate verso la piazza e bonificatela, io vado verso la base e cerco di aver contatto radio"
"ricevuto" Risposi rapidamente. Le parole del Sergente furono rapide e severe. Mentre ci dividemmo ancora lo sentii tentare di avere un ennesimo contatto radio con quelli che erano rimasti al forte e finalmente, dopo tanta attesa nella quale stavamo pensando al peggio, ricevemmo risposta. Erano sotto incessante attacco. Così mi intromisi chiedendo a Ribaldi se non fosse meglio per me indietreggiare e dare manforte ma lui mi disse che era importante bonificare l'aria in cui mi aveva indirizzata. Girai quindi l'angolo ma impattai contro un ragazzo col quale mi ci trovai faccia a faccia. Era giovane, non più di sedici anni. Lo capii dai suoi tratti delicati nonostante lo sguardo severo. Pelle olivastra e capelli riccioli corti. Mi urlò qualcosa in arabo e tentò di colpirmi col calcio del suo AK. Riusci in tempo ad abbassarmi e afferrandolo per la vita lo feci sbattere violentemente contro il muro. I miei probabilmente stavano già puntando ma non sparavano per paura di colpirmi accidentalmente. Dovevo allontanarmi da lui e sicuramente lo avrebbero ucciso. Afferrai il suo fucile e lui cercò di non farselo strappare di mano così gli diedi una ginocchiata, tentai di prenderlo ai testicoli ma lo colpii nel basso ventre. Lui però reagì colpendomi in faccia con un destro e rigirò la situazione schiacciandomi al muro.
"allontanalo" Mi dissero. Raccontarlo sembra una cosa lenta ma accadde tutto in una frazione di secondo, un momento così tanto fugace ma anche ben impresso nella mia memoria. Riuscii a colpirlo in faccia due volte, ad ogni pugno sbuffavo aria violentemente e dopo una gomitata afferrai il mio extrema ratio col moschin black, e lo affondai nel suo ventre. La lama del coltello entrò e uscì dentro di lui tre o quattro volte. Era la seconda volta che usavo un coltello, la prima avevo solo fatto un taglio, in quel momento avevo appena ucciso un ragazzino. Lui mi fissò con occhi increduli, atterriti. Lo sguardo di chi consapevole di morire. In quel momento, quando la sua mano prese il mio volto schiacciandomi le labbra e la pelle con le dita, lo tramortii un ultima volta. Il suo corpo sobbalzò all'ennesima coltellata ma lui mi fissava ancora. La vittima che guardava il suo carnefice. Un momento paradossalmente intimo, uno sguardo di occhi che odiavano e allo stesso tempo chiedevano pietà. Lasciai che il suo corpo cadde per terra d'un fianco e pulendo il coltello sui suoi vestiti lo rimisi al suo posto.
" tutto bene?" mi domandò Fabrizio. Gli feci cenno di si e diedi ordine di avanzare.
Il secondo in fila teneva la mano sulla mia spalla mentre potevo intravedere la canna del suo fucile sporgere alla destra del mio viso. Il lato destra era piuttosto esposto, potevano infatti sbucare altri contatti che ci avrebbero presi senza protezioni da utilizzare. Per questo restammo guardinghi maggiormente, rispetto quel lato. Fu per quello che non ci uccisero tutti quando dei nemici fecero capolino. Quando li vedemmo arrivare dai vicoli furono subito accolti da una rapida pioggia di piombo mentre noi trovammo riparo, fortunatamente dentro quello che doveva esser stato un negozio di frutta. Riparata dietro l'angolo sinistro rispetto la grata guardai altri dei miei poggiati al lato opposto mentre altri ancora, coperti dal nostro fuoco di soppressione raggiunsero il primo piano tramite una scalinata. Il posto era fatiscente; puzzava di frutta marcia e muffa, infatti le pareti azzurre ne erano piene. Sentii i passi dei miei uomini sopra la mia testa e delle urla ma capii subito si trattasse di civili visto che riconobbi la voce di una bambina. Ci volle un po di tempo prima che riuscirono a farle tacere. Intanto io tenevo sotto tiro un bastardo che di tanto in tanto sbucava fuori da un vicolo solo con il braccio armato e la testa. Non avevo molto campo visivo ma sapevo che quelli nell'altro lato, vedevano dove io non vedevo e viceversa. Quindi restavo tranquilla. Affacciarmi era comunque rischioso e non uscivo mai col corpo a favore dell'entrata, sarebbe stata un idea decisamente mortale. Quello che facevo era spostarmi verso la mia destra avendo la spalla sinistra contro l'angolo del negozio. Così facendo potevo sparare al contatto che tenevo sotto tiro e finalmente, dopo qualche attimo in cui sembrava impossibile colpirlo, sentii il tondo sordo di un proiettile colpirlo in faccia. Quando cadde per terra il suo fucile sparò altri colpi ma il suo proprietario non era più una minaccia. Giaceva col viso spappolato sulla sabbia. Lo trovai parecchio... parecchio soddisfacente. Ne avevo ammazzato uno nello stesso modo in cui avevano ammazzato Enrico.
Quei nemici non durarono molto, senza che nessuno di noi venisse ferito, furono abbattuti uno dopo l'altro. Soprattutto grazie all'ottimo lavoro svolto da quelli che avevano occupato il primo piano e che dalle finestre fecero piovere fuoco.
Finalmente potevamo avanzare verso la piazza, sempre guardinghi ma lì la situazione degenerò completamente. Il pavimento era diventato un macabro monumento annerito, come una lastra di carbone dalla quale fuoriuscivano cadaveri anneriti e dalle bocche aperte. Corpi carbonizzati rappresentavano come solo un artista malato avrebbe potuto fare, la morte e la distruzione. L'aria circostante era pregna del puzzo di carne bruciata e qualcosa come metano o un agente chimico usato per l'esplosione. Sentii girare la testa mentre guardavo dove metterei piedi, attenta a non schiacciare un corpo.
Nessuno disse una parola, nessuno osava e mentre mi domandavo perché fare questo a chi cercava di aiutare e a dei civili, un colpo sibilò nell'aria. Un colpo isolato come quello di un cecchino ma il suono non era lo stesso. Veniva sicuramente da un ak 47 o un grosso fucile d'assalto. Eravamo pronti a rispondere al fuoco, cercando stesse sparando quando una raffica breve fece spaventare tutti quanti. Qualcuno ci stava bersagliando, qualcuno che però aveva una pessima mira.
"sparano da lì" disse uno dei ragazzi di Ribaldi. "mi ha fatto il pelo porca puttana, sparano da lì".
Quindi innanzi tutto ci spostammo di conseguenza, togliendoci dalla linea d'aria della strada da lui indicata.
"sicuro?!" urla. Mentre camminando su due lati ci avvicinammo.
"sicurissimo caporale, ho sentito il caldo della pallottola, ci è mancato pochissimo". Lo disse ridendo. Una risata chiaramente isterica. Appena mi affacciai all'angolo vidi una sagoma entrare tra due baracche. Diedi l'ordine di avanzare, l'intera squadra si portò avanti, dieci metri e avrei girato l'angolo. Mi poggiai quindi contro il muro, avrei svoltato da li a pochi secondi, pronta ad aprire il fuoco contro qualsiasi avventore.
Così almeno credevo, girato l'angolo infatti mi trovai di fronte un bambino. Indossava una maglietta di una squadra calcistica inglese e dei pantaloncini cachi. Tremava con un Ak47 tra le sue braccia che sembrava essere più grande di lui. Quanti anni poteva aver avuto? Dieci? Undici? Esitati colta dalla pietà, non riuscii a sparare ma lui...lui invece sparò. Caddi in terra spinta via da una forza inarrestabile. In pochi secondi mi trovai a guardare il cielo mentre sentii caldo alla spalla destra. Il respiro si fece pesante e sentivo di non potermi muovere. L'intera spalla e il braccio destro erano immobili e rigidi. Un bruciore si espanse in tutto il corpo in continue esplosioni che mi fecero sperimentare un dolore violentissimo.
Seguirono degli spari e sollevando la testa guardai il bambino stramazzare per terra, picchiò la testa mentre restava ad occhi lievemente sollevati. La sua faccia era imbrattata di sangue. Guardai la mia spalla destra, anche lei lo era. Faceva male, sentivo il sangue inzuppare sempre di più la mia uniforme e mentre non so chi mi portò via come da addestramento. Io Ero come avvolta in una cappa, urlavano e mi dicevano di resistere. Io respiravo, sentivo il mio respiro e il mio battito del cuore. Sapevo che quelli erano gli ultimi battiti che avrei potuto sentire e gli ultimi respiri che avrei potuto fare. Stavo morendo.
Chiamai mia madre, ricordo che chiamai mia madre come se potesse sentirmi, non per paura. Non perché volevo che ci fosse lei. Avrei soltanto voluto che lei potesse udire
un'ultima volta la mia voce. "mamma" dicevo. Non mi importava che attorno a me dicevano di resistere, che sarebbe andato tutto bene. Nello spostarmi vedevo le tracce del mio sangue sul terreno mentre mi dicevano di non addormentarmi. Mi lamentavo, faceva male ma allo stesso tempo, ero calma. Come rassegnata. Non capivo al momento dove mi aveva colpito anche se respiravo senza problemi. Mi venne messo il laccio emostatico e il medico lì presente si prese cura di me. Tutti gli altri mi avevano circondata per proteggermi. Sentivo ancora il mio respiro farsi sempre più affannato e dovetti sforzarmi per rispondere alle domande che il medico mi porgeva.
Ribaldi fu avvertito del mio stato, rispose che alla base stavano uccidendo gli ultimi rimasti e che poi avrebbero potuto trasportarmi lì, dovevo solo resistere con le prime cure. Mi venne legato il laccio emostatico al braccio mentre fui mossa da alcuni uomini. Il colpo era stato sparato da vicino, la ferita perdeva parecchio sangue ma nella sfortuna fui miracolata. La pallottola non colpì nessuna vena importante e passò esattamente tra la scapola e la clavicola. Quindi passò da parte a parte del mio corpo col foro d'entrata più basso rispetto quello d'uscita. Erano però stati danneggiati i muscoli in quel punto. Il dolore era distruttivo anche se l'adrenalina stava sicuramente anestetizzando. Dovettero cauterizzarmi le parti lese dopo averle pulite, ricordo che con la mano sinistra afferrai il pantalone di un soldato a caso, tirandone il tessuto per sfogare il male che stavo sentendo. Il mio viso grondava di sudore. Tentavo di chiudere il pugno della mano destra anche se facendolo mi procuravo altro dolore. Se non altro ero sveglia e nonostante mi fossi presa una pallottola ancora aggressiva. Il primo momento di paura e disorientamento lasciò spazio a una forte volontà di vivere che si mescolava con la rabbia in un pericoloso cocktail di emozioni.

Redwind: La folgore scarlattaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora