in fondo, restiamo esseri umani

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Mi sollevai, ringraziandolo con un cenno del capo e subito dopo mi guardai attorno, scrutando ogni possibile angolo dove degli jihadisti avrebbero potuto trovare riparo. Sentivo ancora il cuore battere forte, dentro la testa gli imploravo di fermarsi perché non riuscivo a smettere di tremare e sentivo il respiro farsi sempre più affannato, come fossi un toro in procinto di caricare. La sensazione di quelle mani sul seno o dentro le mutande era ancora presente sulla pelle, come un velo di sporcizia che non vedevo l'ora di rimuovere con una doccia che sicuramente sarebbe durata più del dovuto. Al diavolo le regole. Alyssa mi fiancheggiò, strinse il suo braccio destro attorno al mio collo e io poggiai la testa sulla sua spalla. Come un abbraccio Madre e figlia a discapito di etichette e altre cose. In quel momento non eravamo soldati, ma solo due donne che avevano sfiorato uno dei più brutti traumi che si potesse mai subire. Anche lei sembrava piuttosto scossa, sorrideva e tentava di essere quanto più rigida possibile, ma lessi dentro i suoi occhi quel profondo senso di sollievo. Quel sollievo che mentre ti fa rilassare comunque ti inquieta, pensando a cosa sarebbe potuto essere se le cose fossero andate diversamente. Io ero nel suo stesso stato, erano quelli i momenti in cui ringraziavo, non sapevo di preciso cosa ma ringraziavo che non mi fosse accaduto niente.
"io li avrei fatti dissanguare coi colpi nelle palle" riuscì anche a riderci su del dirlo.
In fine mi strattonò dandomi un bacio sulla nuca, come fossi stata Ginevra, sua figlia. Probabilmente, pensai, Alyssa aveva lei in testa quando fece quel gesto dolce che però aveva il sapore di una liberazione da quei brutti istanti.
"brava ragazza" aggiunse poi e lasciandomi andare mi diede una sonora pacca sulla spalla. Non dissi niente, la guardai soltanto e anche se con fatica provai a sorriderle mentre con tutti gli altri iniziammo ad ispezionare i cadaveri, tra questi Ayoub giaceva al suolo in una pozza di sangue sotto la sua testa e lo sguardo fermo per sempre in un'espressione atterrita e dolorante.
Calciai la sua faccia e sentii il suo naso rompersi poi mi girai verso gli altri che stavano ispezionando gli altri cadaveri.
"Pescatore chiama casa" sentii esclamare Il sergente Marti.
Nel frattempo una volta che ispezionammo ogni singolo cadavere ci avvicinammo all'unico lince rimasto intatto, la squadra si sarebbe separata tra i vari blindati dove ci fosse stato uno spazio, fu proprio il sergente della squadra di rinforzo ad insistere, avevamo operato tutta la mattina e non gli sembrava giusto che gli Arditi tornassero a casa, se così la si poteva definire, a piedi. Dicendoci poi di prendere il suo gesto come il suo più sentito rispetto.
"Avanti pescatore" quando ricevette la conferma dalla base ci stavo già salendo su uno dei blindati.
Tutti ragazzi giovanissimi che mi guardarono con sorrisi di accondiscendenza.
"rinforzi arrivati per tempo, Abbiamo una ventina di cadaveri nemici e tre caduti; due Delta e un Col moschin. Rettifico il rapporto precedente; Il vip è stato abbattuto ma la valigetta è stata sottratta da forze mercenarie non identificabili, passo". Non vedevo il sergente ma lo sentivo parlare nella cuffia.
Li lasciai parlare mentre. Ci diedero l'ordine di tornare alla base, quanto i corpi, avrebbero mandato un'altra squadra.
"casa, un caduto è stato sciolto con un acido, passo" esalò. La risposta della base arrivò poco dopo e fu interdetta.
" Pescatore, puoi ripetere per favore? Passo". Così il sergente dovette ribadire quando appena spiegato.
Decisamente basiti, alla base ribadirono l'ordine di rientro e chiusero la comunicazione
così i blindati dopo qualche minuto partirono e io socchiusi gli occhi per pochi secondi, riaprendoli poco dopo.
"gran casino, vero caporale?" mi domandò un fante. Questo aveva la pelle quasi olivastra e delle folte sopracciglia coi capelli neri rasati ai lati.
Prima di rispondergli guardai il suo cognome.
"lasciamo perdere, Fante Dossena, non voglio pensarci".
Lui si scusò e non mi rivolse più la parola, notai che di tanto in tanto i suoi occhi cadevano su di me ma non dissi nulla a riguardo.
Odiavo quel silenzio perché era in quei momenti che come sempre,da quando ero lì,dovevo farei conti con me stessa.
L'iraq mi stava chiedendo davvero troppo, più di quanto una singola donna potesse sopportare. Ero addestrata; sapevo come resistere agli interrogatori, potevo uccidere una persona a mani nude in poco tempo e gettarmi da un aeroplano per poi essere operativa e mortale.
Sapevo il peso che gravava essere una Col moschi. Notavo sempre gli occhi delle persone che ci fissavano, come fossimo alieni. Sguardi increduli o di invidia. Ma quando restavo in silenzio, era come se una presenza oscura mi spogliasse dell'uniforme, lasciandomi nuda contro tutte le turbe di un comune essere umano.
Un detto diceva: fagli credere di essere immortale e penseranno che tu non possa nemmeno sanguinare.
Ma erano solo parole e apparenze, tutti morivano con un colpo al cuore e tutti, lasciati soli con se stessi venivano sbranati dai loro mostri.
La cosa peggiore era l'incertezza di tornare a casa, non vedevo l'ora di rivedere Firenze ma mi sarei chiesta come avrei reagito, se mi sarei resa conto di essere cambiata rispetto a come mi conoscevano.
Ero davvero la stessa bambina che ascoltava rock? O tutti quegli eventi mi avevano trasformato in altro che in Iraq non vedevo.
Mesi fa avrei massacrato a sangue freddo quei tre uomini? Non ero stata io stessa a chiedere al sergente Marti di non uccidere gli uomini che avrebbero cantato? Cosa mi stava accadendo quindi? Certo,il pensiero che quei maiali mi avrebbero stuprata forse giustifica la mia reazione ma li avevo giustiziati come loro facevano nei loro video osceni.
"cristo..." ansimai poggiando le mani come in una preghiera che coprì il naso, piegai la schiena in avanti mentre pensai alla testa di Mario venir sradicata dal suo corpo.
Ero riuscita a vedere i filamenti di carne, la colonna vertebrale uscire di poco dalla carne e la sua mimetica tingersi di rosso. Pochi istanti prima di chiudere gli occhi mi accorsi che il suo corpo si muoveva ancora, aveva spasmi quasi come volesse ancora ribellarsi da quel tragico destino.
Un immagine del genere sarebbe finita accanto alla testa di Enrico, in uno spazio indelebile nella mia mente. Non volevo ricordarmi certe cose, era terribile rivivere quelle esperienze, ma dovevo essere forte ed andare avanti. Continuare a mangiare e combattere proprio i onore di quei ragazzi caduto. Ripetendo a me stessa che se ero stata così fortunata da uscirne viva, era mio obbligo morale, sollevare la testa e continuare a camminare.
Raggiungemmo la base e i Delta sparirono dalla nostra vista, avevamo perso tutti quel giorno, esattamente come ogni volta che ci allontanavamo da quel posto.
Durante l'ora di pranzo marina si prese un po di tempo, giusto il tempo per chiedermi come fosse andata.
Sorrisi anche se non sapevo per quale motivo, feci cenno di no con la testa e mentre lei mi serviva il pranzo la guardai di sott'occhi.
"una merda, come sempre" non potevo dirle molto ma lei capendo annuì con la testa.
Stavo per andarmene, sempre con quel vassoio di plastica rossa ma le sue parole mi fecero girare.
"è morto qualcun altro?" la voce triste, rassegnata.
Piegai la testa e feci spallucce, quella ragazza mi faceva davvero pena. Non in modo cattivo.
Aveva lo sguardo perennemente afflitto e sofferente, l'aspetto peggiore di lavorare in quel posto era che non aveva avuto nemmeno il tempo di chiudersi nel suo lutto. Costretta a lavorare ogni giorno.
Se fossi stata nei suoi panni probabilmente avrei aspettato di vedere Enrico entrare in quella mensa rumorosa e ogni giorno mi avrebbe fatto sempre più male non vederlo arrivare. Ero certa che lei stava vivendo esattamente quella situazione.
"muore sempre qualcuno, fa parte di ciò che siamo"risposi per poi andarmene.
Trovai posto su un tavolo isolato e mangiai quei maccheroni sporcati di sugo in silenzio, preda di un violento appetito, realizzai solo dopo aver finito il piatto che comunque, non sarei ricaduta in anoressia.
Visto quanto accaduto ci fu concesso del tempo per riposare così appena fui libera mi trovai seduta contro l'angolo della doccia, completamente nuda sotto un costante getto caldo.
Sentivo l'acqua scivolarmi dalla testa verso tutto il corpo, coccolandomi e facendomi provare un certo senso di sollievo, lasciai entrare un po d'acqua in bocca che poi gettavo con piccoli spruzzi.
Lasciavo... o meglio, speravo che l'acqua facesse scivolare via tutto quello schifo vissuto poche ore prima, strinsi le ginocchia contro il busto, abbracciandole. Restando più piccola che potevo.
Non per il trauma, non mi sentivo traumatizzata ma debole e per me era forse peggio, fissavo costantemente le piastrelle bianche che avevo di fronte mentre ancora una volta il mio pensiero andò a casa e, senza avere un vero motivo, scoppiai a piangere. Un pianto singhiozzante, preda di continui spasmi. Mentre non avevo controllo sulla cosa cercai nella mia mente il motivo. Sapevo, ero convinta non si trattasse dello stupro sfiorato mentre dentro di me si albergò l'idea che tutte le mie scelte mi avessero portato in un mondo che alla fine non volevo davvero vivere. Avevo indossato l'uniforme per un senso di giustizia, credevo davvero di poter fare qualcosa per gli altri. Per quella ragione insistetti ad entrare nel nono quando tutti mi dicevano di non provarci nemmeno, che nessuna donna superava le prove di idoneità. Ero riuscita a far ricredere chiunque mi diceva "non c'è la farai". Mi ero riscattata da una gioventù terribile passata quasi tutto il tempo sola. Forse era proprio quello, alla fine ero diventata ciò che volevo ma attorno a me, a parte colleghi a cui volevo bene.... Ero sempre quella ragazzina sola che però stava affrontando la verità di un mondo che prima non poteva vedere e ora gli si scagliava addosso violentemente come un leone affamato.
Piansi fin quando alla fine non ebbi più lacrime da versare ma restando ferma ed in silenzio sotto l'acqua, con gli occhi che bruciavano, volevo dormire e non pensare più a niente ma dovetti alzarmi prima di addormentarmi davvero. In accappatoio andai verso la camera e dopo aver indossato le mutande Glauco entrò in camera, vedendomi sobbalzò.
"oh, cazzo scusa" esalò. La cosa mi fece ridacchiare, del resto non era la prima volta che mi vedeva nuda, non per qualcosa di intimo ma capitò diverse volte che fummo costretti a cambiarci tutti nella stessa stanza, quando accadeva mi giravo contro l'angolo ma quella volta mi vide in pieno e diventò rosso.
"non preoccuparti" esalai allacciandomi il reggiseno " e soprattutto non emozionarti troppo" aggiunse ridacchiando. Usai la cosa per sdrammatizzare quella brutta situazione.
"ma vai a cagare" rispose lui per poi muoversi verso il suo posto letto, cercò qualcosa e mi si avvicinò quando stavo indossando i pantaloni.
Mi mostrò lo sfondo del suo cellulare, c'era lui e una ragazza mora stretti stretti con un ambiente mediterraneo.
"sono fidanzato" spiegò quindi per poi andare verso il letto, poggiò la testa direttamente sul cubo.
"adesso morirai" spiegai ridacchiando stendendomi anche io. Non lo guardavo mentre gli parlai, fissavo il soffitto mentre lui era praticamente dall'altro lato della stanza.
"oh! ma che di dici?!" il suo tono era divertito ma un po assente.
"nei film di guerra quando uno dei protagonisti mostra la foto della famiglia o se gli mancano pochi giorni per tornare a casa, muoiono" Ridacchiai ma ancor di più quando lui si toccò il pacco per esorcizzare la "sfiga" che gli avevo scagliato contro.
Ci fu un po di silenzio che lui interrompette dopo un triste sbuffo.
"povero Mario... che fine di merda" lo sentii sbattere il pugno contro il letto tre volte, un modo come un altro per sfogare la rabbia e la tristezza. Un compagno morto era sempre doloroso e infatti, minuti più tardi, quando ci raggiunsero gli altri, ci trovammo tutti in piedi a formare un cerchio, nel silenzio di una preghiera da dedicare a Mario. Stringevo il mio basco retto da entrambe le mani difronte la vita, guardavo le spade, il numero nove nel mezzo e sopra la fiamma ricurva verso sinistra.
"se non altro, è morto per qualcosa a cui teneva, certo ha fatto una fine infame che nessuno merita, ma Mario, come tutti noi del resto credeva ciecamente in quello che faceva ed è per questo che sarà sempre un grandissimo uomo a cui tutti noi dobbiamo il nostro rispetto". Le parole del sergente Marti mi toccarono, anche se io non ero molto legata a lui. Certo era della mia squadra e gli volevo bene ma per un mio difetto caratteriale, non mi affezionavo mai a nessun compagno. Forse proprio per evitare il dolore atroce che sentii con Enrico.
"se mi permette, sergente Marti, anche se saranno parole banali, dobbiamo impegnarci ancora di più per poi tornarcene a casa dalle nostre famiglie, far si che Mario... o meglio fante Balestri, non sia morto invano" Esalò Leonardo carezzando come me il suo basco amaranto.
Il sergente annuì e mi diede un colpo sulla spalla, anche a Glauco essendo dall'altro suo lato.
"lo sapete, quando non ci vede nessuno odio mettervi sugli attenti e altre cose ma, date una sistemata a questa camera e poi scendiamo giù che quando finisce la pausa ci hanno già assegnato dei lavori" Spiegò lui.
Così tutti quanti andarono verso il loro posto letto per sistemare a dovere le varie cose. Dovemmo anche pulire la stanza spazzando per terra e spolverammo gli armadietti. Una vera noia ma necessaria, era comunque importante l'ordine generale.

Redwind: La folgore scarlattaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora