Capitolo 5: gioco d'amore

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Mentre Sanem è ancora assorta nelle sue fantasticherie, Can la trascina con vigore fuori dalla festa e continua a blaterare parole tra se e se. "Can, un attimo, un attimo, ti puoi fermare? Perché fai così?". Con gli occhi pieni di rabbia e la voce tonfa, Can le risponde "Quel tipo non può toccarti così, non può guardarti in quel modo!" Quasi a giustificarsi per un inesistente flirt, Sanem con tono dimesso cerca di smorzare l'animo focoso di Can: "Ma non è successo niente, abbiamo parlato, ballato e poi ha firmato il contratto!"

"Lascia stare il lavoro! Sei tu la cosa più importante" dice Can con tono deciso, senza ammissione di repliche. La rabbia gli aveva fatto pronunciare quelle parole che per le orecchie di Sanem erano come le note celestiali di una sinfonia romantica. In un attimo Can però, resosi conto di essersi esposto troppo, continua: "Cioè, l'avrei fatto per qualsiasi dipendente, non riguarda solo te!" Sanem è frastornata. Aveva appena udito una dichiarazione d'amore e un attimo dopo si ritrova con l'animo in frantumi "Davvero? Perché mi hai protetta? Io non ho bisogno di essere difesa, e poi il cliente si sarà offeso, all'improvviso te ne sei andato via, torniamo indietro?" Ma Can non vuole sentire ragioni: "Assolutamente no, non torneremo lì, vieni con me?"

 Aveva appena udito una dichiarazione d'amore e un attimo dopo si ritrova con l'animo in frantumi "Davvero? Perché mi hai protetta? Io non ho bisogno di essere difesa, e poi il cliente si sarà offeso, all'improvviso te ne sei andato via, torniamo ...

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Can

Avevo dato di matto completamente, quell'uomo aveva superato ogni limite. Ogni logica e ogni ragione mi avevano abbandonato. Non ragionavo più. Ero solo pieno di rabbia, rabbiosamente geloso. Non doveva parlarle, non doveva avvicinarsi, non doveva azzardarsi a toccarla nemmeno con un dito. Si, avevo cercato di farlo. Cercato di controllarmi, di stare calmo, di respirare. Era colpa sua, di quel maledetto che le stava troppo vicino, troppo vicino. Non andava bene, lei era mia. Mi ritrovai quelle parole in bocca senza rendermene conto, ma suonavano bene. Lei era mia, mia. Non mi importava niente del fidanzato, dell'anello, del rispetto. Sanem era mia. E io? Si forse ero già suo, suo. Quel sentirmi appartenere a quella ragazza magica mi fece sentire euforico, la rabbia trattenuta sembrò lasciare per un attimo il mio corpo. No, lei non era mia. Allah, Allah... imprecai. Lei apparteneva a un uomo che non ero io. In quell'istante la sua mano era così stretta alla mia, le sue parole erano giustificazioni arrancate. Era mia nei movimenti, nel seguirmi, nel fidarsi, nel non lasciare l'intreccio delle nostre dita unite. Nel suo abbandonarsi. Poi, senza rendermene conto, avevo parlato troppo, le avevo detto che era la cosa più importante, un passo falso, un'esposizione alla quale dovevo rimediare, rimediare ferendola, ma bravo Can. Un gentiluomo proprio. Quello che era fatto era fatto, quello che era detto, detto. Il mio unico pensiero adesso era andarmene il più lontano possibile da quel posto, da quell'uomo arrogante. Volevo solo portarla via con me, io e lei. Soltanto io e lei, in un posto dove non avevo mai portato nessuno.

 Soltanto io e lei, in un posto dove non avevo mai portato nessuno

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"La storia di Sanem & Can"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora